Sulla scia del successo avuto dall’uscita nelle sale del capolavoro Dogtooth (Kynodontas) di Yorgos Lanthimos, torna nelle sale, a quattro anni dalla sua prima proiezione, Alps (Alpeis).
Difficile non fare paragoni, ma soprattutto non notare come, ancora una volta, il regista usi la settima arte per scrutare la natura umana e sue forme sociali e psicologiche. Se in Kynodontas il fulcro della questione (o della visione) era il nucleo familiare, analizzando gli affetti e la famiglia come una piccola “polis” da proteggere e in cui creare una realtà altra da quella del mondo esterno, in Alps ci spostiamo verso la società, andando ad analizzare i ruoli sociali e le dinamiche ad essi collegate.
Atene, un gruppo formato da un’infermiera, un paramedico, una ginnasta e il suo allenatore, decidono di proporsi ai familiari di persone defunte come sostituti del congiunto dipartito, al fine di aiutarli ad affrontare e superare il lutto. I quattro decidono di chiamarsi “Alpi” e il motivo ci viene spiegato da Monte Bianco (il paramedico): “Nessun’altra montagna può sostituire le Alpi perché sarebbe più piccola, un debole surrogato.
Le Alpi non possono essere sostituite da altre montagne ma possono sostituire tutte le altre”.
Da subito ci appare evidente come i membri delle Alpi non abbiano un’identità definita. Sappiamo poco di loro, delle loro vite e dei loro modi di essere. Vengono identificati dal loro ruolo sociale (paramedico, infermiera ecc..) e dal loro soprannome all’interno del gruppo (Monte Bianco, Monte Rosa, ecc.).
Il loro essere diventa funzione del ruolo che ricoprono, esattamente come gli attori cambiano personalità di rappresentazione in rappresentazione. Così come nelle teorie del sociologo Goffman palco e retroscena non sono mai oggettivamente identificabili ma cambiano di situazione in situazione, di scena in scena, anche la natura attoriale entra nella dimensione privata e gli attori diventano attori di loro stessi. Emblematica in tal senso è l’interpretazione dell’infermiera (Monte Rosa) nei panni della tennista. Inizialmente l’aspetto recitativo nonché la scissione tra dimensione privata e piano attoriale nella vita di Monte Rosa è evidente e ben delineato. Tuttavia, man mano che la pellicola avanza, la vita privata e la vita recitata si intrecciano diventando un tutt’uno. Monte Rosa instaura una relazione sessuale con il fidanzato della tennista defunta, arrivando ad invadere la proprietà privata dei genitori di lei alla ricerca spasmodica di un punto di riferimento, di una realtà oggettiva che ormai non riesce a percepire. Le vite si confondono e così le identità. Anche la natura edipica dell’approccio di Monte Rosa al padre nella ultima parte del film ci dice qualcosa di più in merito a una confusione di ruoli che la donna sta vivendo, piuttosto che a un’attrazione meramente sessuale.
La ragazza cerca di trovare un ruolo all’interno della vita di suo padre, proprio nel momento in cui si vede surclassata da un’altra donna (la compagna di danza dell’uomo). In questa ricerca di un ruolo finisce per
interpretare la di lei defunta madre, manifestando gli atteggiamenti di una donna tradita, più tipici di una compagna che non di una figlia
In un mondo in cui nessuno è chi sembra essere il concetto di fiducia diventa fondamentale. Emblematica in tal senso è la scena della clavetta e della messa alla prova di Monte Rosa da parte di Monte Bianco. Con un
chiaro riferimento alla trilogia di Kieslowski (“la clavetta può diventare bianca, blu o rossa”), Lanthimos ci colpisce in pieno volto, ricordandoci che nessuno è affidabile, nonostante la falsità sia palese e palpabile. I
protagonisti recitano in modo meccanico, evidente, quasi grottesco. Ridono agli errori, anche nei momenti meno opportuni (la scena del rapporto orale ricevuto da Monte Rosa da parte del venditore di lampade), ripetono le battute all’infinito, come se la prova attoriale definitiva non fosse mai in scena, ma sempre in una fase di prova. Anche quando si trovano in ambito domestico i protagonisti hanno le movenze tipiche della recita, rendendo palco e retroscena quasi indistinguibili. La luce è desaturata come le emozioni. I sentimenti sono finti, mimati, come le battute da ripetere con metodo e staticità ma senza trasporto. L’intera vicenda è una pantomima di ciò che dovrebbe essere. Un pallido surrogato.
Infine è difficile non notare come, se in Kynodontas il riferimento alla cultura “pop” come espediente di connessione con una realtà estranea alla claustrofobica situazione familiare era appena accennato (la
cassetta di Rocky), in Alps, il film più metacinematografico del regista, tutto ciò diventa palese, lampante, urlato. “Qual è il tuo attore preferito?” continuano a chiedere i protagonisti. Winona Ryder, Robert Redford,
Bruce Lee. Una musica più pop è quello che chiede la ginnasta per il suo numero. Ella pretende un passaggio da una musica cupa (Carmina Burana – Carl Orff) e un nastro nero a una musica più allegra, più “pop”
(Popcorn – Gershon Kingsley) e un nastro rosa. Da una realtà di angoscia ad una di spensieratezza, dal medioevo alla rinascita. Questo apparente cambio di situazione è in realtà meramente formale: la coreografia
continua a chiudersi con un nastro che immobilizza e chiude gli occhi, ma questa volta lo fa illudendoci che la cosa ci piaccia.
Straziante, potente e dall’impatto emotivo devastante, Alps è un altro piccolo gioiello che sarà in grado di coinvolgervi alla prima visione e stravolgervi in quelle successive.
a cura di Letizia Lo Preiato
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