È bello per certi versi, poter ritornare a parlare di American Psycho, a quasi vent’anni dall’uscita, come se si trattasse dell’anniversario di un film controverso di enorme successo che ha saputo fotografare, come forse nessun altro, New York e l’America del turbocapitalismo sul finire degli anni Ottanta.

Tratto dall’omonimo bestseller di Bret Easton Ellis del 1991, il film uscì nelle sale americane il 14 aprile 2000 mentre in Italia si dovette aspettare ancora un anno ed uscì il 25 maggio del 2001. L’assegnazione della regia passò di mano in mano a registi come Oliver Stone e David Cronenberg, entrambi considerati esperti nelle tematiche presenti nei film. Stone diresse infatti Wall Street, e si pensava potesse essere la persona giusta viste le affinità di location e dei personaggi. Cronenberg fu considerato perchè si sarebbe creato un interessante connubio tra il suo cinema malato e la violenta letteratura di Ellis. Alla fine il film finì sulle mani femminili di Mary Harron, ancora semisconosciuta ma con già qualche esperienza al seguito (Ho sparato ad Andy Warhol, 1996).

American Psycho

Trama

Fine anni 80, Patrick Bateman è un’arrivista di Wall Street, uno yuppie della classe ricca, veste abiti firmati, tiene alla cura della persona e frequenta ristoranti di lusso. Segue gli ideali edonistici di quegli anni:”Non toccatemi il mio Rolex” è una frase che lo identifica. Dietro questa facciata è nascosto un mostro che, di notte scandaglia le sue fantasie più violente e recondite e strafatto di droghe, tortura e uccide colleghi, mendicanti e prostitute. Ma nessuno pare accorgersene.

Il film fece discutere tutta America per la carica di violenza che conteneva. Ma è giusto definirlo violento, come molti critici del tempo hanno fatto?

La struttura del film è composta delle sequenze che riguardano la sfera privata del protagonista e da quella professionale. Sempre sul limite dell’eccesso, sempre esaltando ogni piccolo particolare, sempre lasciando dei vuoti in ogni scenografia che alludono alla vuotezza del protagonista; la regia è patinata ma funzionale.

Patrick Bateman è interpretato alla stragrande dall’allora poco conosciuto Christian Bale ed è un personaggio che con il suo sguardo non abbandona mai lo spettatore, si insinua nei suoi pensieri e spesso lo tenta. Lo spettatore ha paura di quello che Bale sta per fare, ma non riesce a distogliere gli occhi dalla pellicola, che senza mostrare sangue e budella, decide di restare sul suo primo piano. Come nella scena dell’omicidio di Paul Allen, che Patrick uccide solo perchè lo vede come un sosia. Non vediamo l’ascia perforare il corpo (come accadeva in Shining di Kubrick) ma restiamo incollati alla faccia psicopatica bagnata dagli schizzi di sangue.

American Psycho

Le uccisioni sono quindi mostrate lasciando le giuste pause e attivano un meccanismo interessante nel inconscio dello spettatore. Per tutta la durata noi vediamo il film secondo la prospettiva di Bateman è come se in qualche modo diventassimo puro noi dei maniaci. Quindi, all’occasione, non vorremmo che Patrick uccidesse delle persone, ma quando succede, silenziosamente un po’ godiamo anche noi. Questo accade anche grazie alle reazioni del viso di Christian Bale, che in questi istanti è adrenalinico, impetuoso, passionale. L’inespressività è invece lo sguardo di default che ha per tutto il resto del film. Partendo dallo sguardo, sviluppa un magnetismo che ci tocca dentro, tocca il vuoto che ognuno di noi ha dentro di sé, tirandoci fuori del sadismo. Inconsciamente noi vogliamo che la gente venga uccisa dal protagonista, ma speriamo che ciò non accada. Ci troviamo di fronte a un antieroe dal fisico scultoreo, perfetto e razionale ma la cui psiche soffre della lobotomia del consumismo che lo circonda e ricerca quindi irrazionalità, amore, odio, sensazioni umane vere e profonde nelle sue fantasie omicide. Bale è un David di Michelangelo con la follia omicida negli occhi.

« C’è una vaga idea di Patrick Bateman, una sorta di astrazione. In realtà non sono io, ma una pura entità, qualcosa di illusorio. Anche se so mascherare la freddezza del mio sguardo, e tu puoi anche stringermi la mano e sentire la mia pelle a contatto con la tua, e persino arrivare a credere che i nostri stili di vita sono perfettamente comparabili… la verità è che io non sono lì »

Per quanto riguarda l’aspetto visivo il film è molto luminoso con una fotografia che tende al pop (il direttore della fotografia curò tra l’altro la fotografia di Pulp Fiction), per un film dove tutti sono vestiti in giacca e cravatta, in un mondo dove ciò che conta era l’aspetto esteriore. Perfetti montaggio e la durata nella sua concisione e la cura di ritmo e tempi. Le musiche scelte da Bateman prima di compiere gli omicidi rispecchiano lo stesso protagonista: effervescenti e precise fuori, vuote e senza un vero contenuto dentro. Sono lo specchio della crisi di contenuto che colpisce gli anni ’80: commerciali e ultra-patinati.

Come dice Patrick Bateman “sotto sotto, non ha importanza”. Non conta la psiche malata che gli fa pensare di aver effettivamente ucciso, ma l’esterno, la realtà alla quale cerca di sfuggire.

La paura in questo film viene dal pensare che effettivamente sia possibile che degli omicidi vengano nascosti e non portati alla luce e che una confessione non venga presa mai sul serio. Questa sorta di alibi o superpotere lo ottieni solo se fai parte dell’élite. Così come nel romanzo, a seconda dell’interpretazione che si vuol dare al finale, se sei ricco puoi trascinare un cadavere lasciando scie di sangue sul pavimento senza che nessuno lo noti. Puoi raggirare un detective senza che questo ne accorga nemmeno inconsciamente. Puoi confessare e chiedere di essere rinchiuso ma qualcuno farà in modo che non ti succeda nulla (come non pensare al finale di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri?

American Psycho

La pellicola del 2000 è meta-cinematografica, e che il film sia dedicato anche a noi horror fanatici lo si capisce per il registro postmoderno che il film utilizza, oltre alla scena dove Patrick fa ginnastica guardando Non Aprite quella porta di Tobe Hooper, della quale verrà citata la scena con la motosega nel finale. Una delle teorie che il film lascia intendere è infatti che Bateman sogni i suoi omicidi, eseguendoli come li ha visti in un film o sentiti nei testi di un album. Bateman è quindi l’uomo postmoderno, il consumatore che consuma i mezzi di comunicazione pop come il cinema e la musica, è un uomo vuoto ma che ha una cultura riguardo videotape e cassette, (parla alla lunga di Phil Collins, Huey Lewis, Whitney Houston come fosse un recensore di dischi.

Lui parla del piacere del conformismo e dell’importanza dal trend, è bello essere conformi a un modello di economia liberale e sfrenato capitalismo. Sta descrivendo quello che lui stesso è, che tutti i personaggi sono, che la società intera è.

La vera domanda subliminale che il film pone è quindi assimilabile dopo qualche visione della pellicola, visto che bisogna interpretare uno dei finali. Ma aldilà della scelta il messaggio della regista arriva senza essere didascalico nè criptico.

Il male è Patrick Bateman, malato e psicopatico, o è forse la società stessa, malata dalla smania del denaro che rende tutte le persone vuote? … Sarà, ma io nel frattempo

« Devo restituire una videocassetta ».