Un gruppo di studentesse decide di vivere un’esperienza di isolamento facendosi chiudere in un bunker sotterraneo per un week-end. Ben presto si accorgeranno di non essere sole. In quel dedalo di corridoi bui, infatti, si nasconde un orrore oscuro e affamato di carne.
Dario Germani, che ci aveva già colpiti allo stomaco con il sorprendente Lettera H, torna sul luogo del delitto, un delitto iniziato quarant’anni fa dal mitico Joe D’Amato e ripreso nell’attualità grazie ad un’operazione cinematografica che ha il sapore inconfondibile di quel cinema corsaro che tanto ha dato al “genere”.
Nato in pieno periodo pandemico, Antropophagus II ne rispecchia ansie ed inquietudini e si distacca dal modello originale proprio per quel senso di oppressione che ricerca, grazie anche ad un’ambientazione claustrofobica e suggestiva.
La trama è chiaramente un pretesto, una miccia propedeutica all’accensione di un circo degli orrori che va a risvegliare le paure più immediate ed istintive dello spettatore. Le ragazze in pericolo, l’oscurità nella quale si aprono corridoi ancora più bui, la presenza di una mano assassina e cannibale che deturpa e fagocita.
Germani è bravo (anche come direttore della fotografia) a farci scivolare in un incubo inevitabile, pur nella sua prevedibilità. Non cerca di vestire la storia di significati nascosti e concetti pretenziosi, ma anzi la sveste e la riduce all’osso, proprio come fa lo spietato assassino con le sue vittime.
Antropophagus II riesuma un cinema della tortura che, tornato in auge una quindicina di anni fa (Hostel, Shadow) stava lentamente scomparendo dagli schermi.
Omaggio dichiarato al nostro glorioso cinema horror ’70/’80, Antropophagus II è anche un nuovo intrigante tassello del puzzle artistico di un regista coraggioso e interessante, sempre più convinto nel perseguire un cinema che picchia duro, senza strizzate d’occhio al pubblico generalista.