Dopo un buon Assassinio sull’Orient Express e un più scadente Assassinio sul Nilo, Kenneth Branagh torna a raccontare (e a interpretare) le avventure di Hercule Poirot.
Questa recensione NON contiene SPOILER
Un inedito Poirot
È il 1947. Un solitario Poirot si riposa in una Venezia dai colori pastello. Una sua “amica” lo convince a partecipare a una seduta spiritica, convinta che il detective possa svelarne la natura truffaldina. Scende la notte, si scatena una tempesta e la seduta si conclude con un omicidio. Lo spirito razionale di Poirot inizia a vacillare: la sua mente geniale non riesce a spiegare le cause di quel decesso e oscure visioni iniziano a tormentarlo. Forse, questa volta, il detective si trova davvero di fronte a qualcosa che è più grande di lui.
È questa la trama di Assassinio a Venezia (A Haunting in Venice), liberamente ispirato al romanzo di Agatha Christie Hallowe’en Party (1969). Branagh, però, stavolta prende le distanze dall’opera della creatrice di Poirot e, oltre a cambiare l’ambientazione (Venezia e non più Londra), finisce per mettere in scena una storia diversa da quella raccontata dalla Christie. Il regista, infatti, si avventura nei meandri del cinema horror, imboccando una strada totalmente differente rispetto ai due film precedenti.
Un po’ giallo, un po’ horror, un po’ gotico
“Stasera abbiamo tutti paura…”, dice Poirot davanti ai suoi sospettati prima di svelare finalmente la chiave di un enigma apparentemente inspiegabile. La paura, l’angoscia, il dubbio, infatti, attanagliano anche l’invincibile detective, incapace di credere veramente all’esistenza del paranormale ma, allo stesso tempo, terrorizzato dal fatto che quel paranormale possa esistere.
Un merito sicuramente a Branagh va riconosciuto: quello di essere stato in grado di cambiare direzione rispetto ai due film precedenti, riuscendo a stupire un pubblico che non avrebbe mai pensato di trovarsi davanti a un (quasi) horror con Poirot. Infatti, anche se nel finale la ragione torna (almeno in parte) a trionfare, sono l’immaginario e i codici dell’horror (e del gotico) ad essere i veri protagonisti di questa pellicola. Da questo punto di vista, Venezia finisce per essere la semplice cornice di una vicenda ambientata in un “castello” (un palazzo, in realtà) durante una notte buia e tempestosa. E, in fondo, la vera minaccia, per una volta, non è costituita solamente da essere umani in carne e ossa ma anche da presenze che quantomeno potremmo definire perturbanti.
L’ambientazione: imprigionati tra le ombre
Se Assassinio sul Nilo aveva deluso soprattutto a causa di un’ambientazione smaccatamente “digitale” e dunque poco coinvolgente, Assassinio a Venezia fa dell’ambientazione il proprio punto di forza, optando per una semplice magione capace di creare un’atmosfera oscura, tetra e minacciosa. A rendere il tutto ancor più suggestivo è il fatto che Poirot e gli altri personaggi siano intrappolati tra le ombre di quel luogo, impossibilitati ad andarsene a causa della tempesta. Sebbene tale ambientazione finisca per essere depotenziata da alcune scelte registiche e dal ritmo della narrazione, il risultato finale è comunque molto più coinvolgente e suggestivo del precedente.
Audace anche la scelta far camminare la storia sul confine tra ragione e superstizione, riuscendo a far oscillare continuamente lo spettatore tra queste due dimensioni. Lo stesso Poirot più volte sembra ammettere la sconfitta della ragione di fronte agli eventi che stanno accadendo e riconosce che sì, ognuno di noi ha i propri fantasmi, solo che non sappiamo in che modo si manifestino. Per chi guarda, la sensazione è quella di camminare su un filo sospeso a mezz’aria: sbilanciarsi da una o dall’altra parte finisce sempre per essere estremamente pericoloso.
Una narrazione un po’ frettolosa
Molti hanno accusato Assassinio a Venezia di essere “un po’ scontato, banale”: non penso che sia così, almeno non troppo. Certo, come ogni buon film/libro giallo, Assassinio a Venezia fornisce allo spettatore gli strumenti per formulare delle ipotesi (e questo talvolta permette ai più “svegli” di capire in anticipo la soluzione dell’enigma o, quantomeno, il colpevole) ma questo di certo non è un difetto. Più che essere banale, il difetto del film è quello di sottolineare un po’ troppo platealmente i propri indizi invece di nasconderli.
La narrazione, inoltre, risulta in alcuni passaggi un po’ troppo frettolosa, soprattutto dopo l’omicidio. Ritengo che Branagh avrebbe dovuto valorizzare meglio l’ambientazione, alimentandone ancor di più il tono cupo e dark: un rallentamento del ritmo narrativo avrebbe giovato alla pellicola e permesso alla macchina da presa di indugiare di più su determinati elementi, suscitando nello spettatore un sentimento di tensione che invece resta del tutto assente.
Una regia non impeccabile
Un altro limite della pellicola, inoltre, sta proprio nella regia di Branagh o, meglio, nel suo tentativo piuttosto goffo di imitare i maestri del cinema horror, creando talvolta sequenze confuse e poco spaventose. Il regista, infatti, tenta disperatamente di creare suspence ma, forse per inesperienza, fallisce. Insomma, una discreta regia finisce per scontarsi inevitabilmente con i propri (grandi) limiti nelle scene “horror”. Di conseguenza, in alcune scene, anche il montaggio appare confuso e problematico. Buona, invece, la fotografia che crea una netta opposizione tra il giorno e la notte: i colori tenui e (iper)luminosi delle scene diurne sembrano simboleggiare una tranquillità presto minacciata dall’arrivo del buio, di una notte che è territorio di “fantasmi” e presenze perturbanti.
In conclusione, Assassinio a Venezia è un film che merita di essere visto: Branagh si addentra in territori prima inesplorati dalla figura del grande detective Poirot e questa scelta è, paradossalmente, il punto di forza del film (narrativamente) e, allo stesso tempo, la sua più evidente debolezza (registicamente).
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