La Corea del Sud è un paese attraversato da una marea di contraddizioni. C’è una cieca fiducia nelle istituzioni, che per i giovani si traduce in un’obbedienza senza messa in discussione dell’autorità degli adulti; questo però porta ad una mancanza di capacità d’azione e all’inevitabile disillusione quando si scopre che quelle presunte roccaforti hanno delle falle. Uno degli esempi più recenti è la serie Netflix Non siamo più vivi, in cui gli adolescenti protagonisti, braccati dagli zombie, aspettano di essere salvati dagli adulti. La conclusione cui giungono è che loro, di quegli adulti che li hanno abbandonati, non hanno più intenzione di fidarsi. Insomma, le opere che provengono da questo paese contengono quasi sempre una critica alla società e alla politica, indice del fatto che forse le cose non sono così perfette e funzionanti come vogliono farci credere. Lo sa benissimo Bong Joon-ho, che con il suo Parasite si è portato a casa, tra gli altri, l’Oscar al miglior film – si tratta del primo film non in lingua inglese a vincere l’ambita statuetta – mettendo in scena le disuguaglianze sociali e la feroce lotta di classe di un paese che esporta perlopiù lo scintillio del k-pop e dei romanticissimi k-drama.

Parasite, che ha il merito di aver fatto conoscere il regista ad un pubblico mainstream, non è ovviamente il primo o l’unico caso. Bong Joon-ho, laureato in sociologia, è solito costruire le proprie trame su tematiche sociali, spaziando tra vari generi e unendone spesso gli elementi. In occasione del suo cinquantacinquesimo compleanno andiamo a rispolverare un suo film del 2006, uscito tre anni dopo il grande successo di Memories of Murder. Si tratta di The Host, un monster movie che ha in sé, per l’appunto, elementi che spaziano dalla commedia al dramma.

Trama

Siamo in un laboratorio statunitense in Corea del Sud, è il 2000: uno scienziato americano (grande cameo di Scott Wilson) chiede al suo assistente coreano di gettare nel lavandino della formaldeide scaduta. Il ragazzo, seppur riluttante, obbedisce, facendo in modo che litri di formaldeide vadano ad inquinare il fiume Han. Passa qualche anno e facciamo la conoscenza di Park Gang-doo (Song Kang-ho), un fannullone che ci viene presentato mentre aiuta il padre nella gestione di un chioschetto sul fiume in una giornata piena di gente. All’improvviso da quelle acque emerge un mostro: inizia una stupenda sequenza in cui la creatura fa fuori chiunque gli si pari davanti per poi acciuffare e trascinare via Hyun-seo, la figlia di Gang-doo. Il protagonista, convinto che la piccola sia ancora viva, chiede allora l’aiuto della sua disfunzionale famiglia composta, oltre che dall’anziano padre, da altri due fratelli inetti: un’arciera che non riesce mai a fare centro e un laureato alcolista senza occupazione.

La famiglia e il governo

Come succede spesso nei prodotti coreani con impronta sociale, i protagonisti sono sull’ultimo gradino della gerarchia. Si tratta di inetti, quelli che il sistema sputa, quelli che non ce l’hanno fatta. Bong Joon-ho ce li presenta però con tanta umanità e amore, quello stesso amore che i quattro nutrono per la bambina e che sarà il motore dell’intero film. The Host, infatti, non vuole essere uno spettacolare blockbuster con il mostrone ed è lontano anni luce dall’approccio americano che pone al centro l’eroe di turno che tutto può. Qui, al centro, ci sono dei personaggi che non hanno nulla di eroico, che ricevono mazzate su mazzate e che vengono completamente abbandonati dal governo che si preoccupa piuttosto di fermare una presunta epidemia derivante dal contatto col mostro. Dal lato delle istituzioni c’è, dunque, un’inumana noncuranza di fronte alla possibilità di salvare una persona, mentre dall’altro lato abbiamo un quartetto di vinti che andrà incontro al pericolo pur di riportare a casa qualcuno che potrebbe anche essere già morto.

La critica

The Host è un film – anche – ambientalista e anti-americano ispirato ad un noto scandalo: un coreano che lavorava per l’esercito americano aveva ricevuto l’ordine di gettare della formaldeide in uno scarico, che sarebbe poi finita del fiume Han (come vediamo nell’incipit). Inoltre il cosiddetto “agente giallo”, l’agente chimico che viene usato verso il finale dal governo, fa riferimento all’“agente arancione”, un’arma chimica utilizzata dagli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam. Bong Joon-ho ha dichiarato: “è un riferimento per semplificare che The Host è un film anti-americano, ma c’è sicuramente una metafora e una critica riguardo agli Stati Uniti”. Ad essere preso di mira non è solo il governo americano, onnipresente e presunto esportatore di salvezza, ma anche quello sudcoreano, dipinto come estremamente legato alla burocrazia, inadatto a far fronte al pericolo e noncurante dei suoi cittadini.

The Host si muove sempre sulla linea di confine tra satira e orrore, con un gruppo di protagonisti quasi comici che però dovranno scontrarsi con vari ostacoli, fino a un finale tristemente beffardo. L’anti-americanismo del film si vede anche in questo, ovvero nella scelta di non concludere con un aspettato lieto fine.

Classificazione: 5 su 5.

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