Come descrivereste Black Mirror ad una persona che non l’ha mai visto?
Già analizzando il titolo dell’opera si ha uno scorcio di quello che gli autori vogliono raccontare: il Black Mirror, lo schermo nero spezzato che vediamo all’inizio di ogni episodio antologico, rappresenta il display dei nostri televisori, telefoni, computer una volta che si sono spenti: quanto possiamo vedere il nostro faccione riflesso e deprimerci per le più svariate ragioni, vuoti di quella pienezza effimera che offre la tecnologia di oggi.
Cinismo, disagio, distopia, cupezza: questo ci ha raccontato in questi anni la serie ideata da Charlie Booker, tra ricatti, robot antropomorfi, social esasperati, pupazzi candidati alle elezioni e molto altro. Una sola cosa era certa: alla fine dell’episodio, quando lo schermo si faceva nero, il vederci riflessi ci faceva male perché ci esortava a pensare che quelle realtà assurde descritte nell’episodio di turno non erano tanto lontane dalla realtà.
Questo ci aspettavamo dalla quinta stagione di Black Mirror. Quello che invece abbiamo visto è stato un qualcosa di diverso, scontato, assurdo anche per i canoni di una serie del genere.
Le atmosfere sopra descritte sono state penalizzate in favore del lieto fine, del lato positivo della tecnologia. Per carità, è giusto ogni tanto ricordare che per quanti lati negativi possano avere, gli avanzamenti tecnologici non fanno male all’umanità. E allora ben vengano episodi come Hang the DJ, dove l’oscurità è ben bilanciata dai colpi di scena e dal finale piacevole, ma che lascia lo spazio alla fantasia dello spettatore di immaginarsi come potrà andare veramente a finire l’avventura dei protagonisti.
Dobbiamo essere sinceri: abbiamo fatto fatica. Abbiamo fatto fatica a recensire in tre un episodio a testa della nuova stagione: doveva essere un piacere condiviso, è stato invece un piccolo incubo editoriale. Il nostro buon Gabriele Regis ha recensito Smithereens, Lorenzo Cracolici Rachel, Jack e Ashley Too ed a me, L’Inserviente, è toccato Striking Vipers. Qui sotto trovate cosa ne pensiamo di questa quinta stagione di Black Mirror, senza spoiler. Tranne uno: ci ha deluso. Molto.
Striking Vipers
Togliamoci il dente e partiamo col dire che ho fatto fatica a finire l’episodio. A livello registico riconosciamo lo stile: la regia, la fotografia, è tutto come lo avevamo lasciato qualche tempo fa. Fa sorridere vedere Anthony Mackie, alias Falcon, nei panni di Danny, coinvolto in una relazione stabile dalla quale sembra però non avere più stimoli, sebbene la coppia stia provando ad avere un figlio. La donna, in ogni caso, sente che qualcosa non va nel partner, ma quest’ultimo si ostina a negare ciò che lo turba.
Quello che invece ha turbato me, di questo episodio, è l’uso marginale ed erroneo della tecnologia: il gioco Striking Vipers, picchiaduro iper reale che trasporta i giocatori nel mondo virtuale, ha delle qualità che non possono appartenere ad un videogame.
Differentemente dall’episodio Giochi Pericolosi, quarta stagione, dove alla base del videogame c’era la sperimentazione di una esperienza eccessiva e adrenalinica, Striking Vipers presenta delle features del tutto non attinenti ad un videogioco picchiaduro già in commercio, testato e brevettato, dove ci si deve solo scassare di botte con l’avversario.
Tralasciando questo, la storia d’amore/odio al centro dell’episodio è quasi scontata, volta solo a far sviluppare il personaggio di Danny verso un determinato punto, e soprattutto si scatena di punto in bianco, senza un motivo apparente. La tecnologia non è più mezzo per sviluppare la trama ma una scusa per far fare ai personaggi tutto quello che vogliono.
Morale della favola: tutti sono felici di mentire, di amarsi per quello che non sono e di far finta che questo vada bene a tutti. Che come finale, per un episodio di Black Mirror, potrebbe andare anche bene; il problema si pone su come siamo arrivati a tutto questo.
Smithereens
Andare in frantumi: questa è una delle traduzioni della parola inglese Smithereens; è anche il nome usato per chiamare un social che ogni giorno fa interagire miliardi di persone a livello globale. Come scoprirà Chris Gillhaney le due interpretazioni per lui potrebbero coincidere.
Nel secondo episodio della quinta stagione di Black Mirror ci viene mostrato non tanto un futuro prossimo distopico, ma qualcosa che appartiene al nostro presente. Ad inizio puntata scopriamo di trovarci nella Londra del 2018, quindi in un contesto a noi molto familiare in cui sono stati cambiati solo i nomi delle aziende e dei prodotti tecnologici utilizzati dai protagonisti. La sceneggiatura di Charlie Brooker si unisce alla regia di James Hawes, nome non nuovo alla serie in quanto regista dell’ultimo episodio della terza stagione dal titolo: Odio universale. Anche in questo caso i temi centrali da lui trattati sono: la perdita volontaria della privacy da parte degli utenti dei social e il peggioramento delle relazioni umane a causa della tecnologia.
Chris Gillhaney è un ex-professore che lavora come autista di un servizio di noleggio con conducente da alcune settimane. Partecipa a delle riunioni di aiuto reciproco, pratica la meditazione ed è un tipo molto solitario. La sua area di competenza alla guida è situata nei pressi degli uffici londinesi della Smithereens, uno dei social network più utilizzati nel Mondo. Un giorno sulla sua macchina sale Jaden, un giovane lavoratore dell’azienda, che deve raggiungere l’aereoporto di Heathrow. A metà strada, dopo aver preso una deviazione per un presunto rallentamento, Chris minaccia con una pistola Jaden costringendolo a seguirlo in un’altra auto che aveva parcheggiato e facendone un suo ostaggio.
Una pattuglia noterà il ragazzo incappucciato nella vettura e da quel momento comincerà un’imponente caccia all’uomo attraverso le campagne alla periferia di Londra. Dopo un inseguimento Chris sarà costretto a fermarsi in un prato, da dove partiranno le trattative per la liberazione di Jaden a patto che ottenga ciò che chiede: parlare con Billy Bauer. Quest’ultimo è il fondatore di Smithereens che però risulta irreperibile in quanto in vacanza depurativa dalla tecnologia nel deserto dell Utah. Grazie agli sforzi congiunti della filiale di Londra e della sede principale californiana di Los Gatos, dopo parecchie ore Chris riuscirà ad essere messo in contatto con Billy e completare il suo piano.
Un’ottima confezione ma con un contenuto che non riesce a stupire
L’episodio scorre piacevolmente per tutti i suoi 70 minuti, coinvolgendo molto lo spettatore a livello emotivo e facendolo empatizzare con i protagonisti. Il vero problema è che non basta inserire molti elementi tecnologici a noi riconoscibili per renderlo un buon episodio di Black Mirror. La serie britannica aveva la capacità di shockare lo spettatore e porlo a riflettere su aspetti sempre più spesso trascurati di questo nostro Mondo sempre più frenetico e connesso. Quello che ci vuole comunicare Hawes non è nulla che già non conosciamo, l’unico pregio è quello di averlo saputo incartare in un’ottima confezione da gustare in tensione.
Andrew Scott (Sherlock) nel ruolo di Chris è stato molto convincente e la sua interpretazione riesce a rendere credibile l’intera puntata. Damson Idris (Twilight Zone) e Topher Grace sono stati degli ottimi comprimari, rispettivamente come Jaden e il guru tecnologico Billy Bauer. La regia predilige sempre primissimi piani stretti in contrapposizione con campi lunghissimi della campagna inglese. Il montaggio è frenetico ma sempre ben calibrato, non facendoci perdere nulla di quello che succede ai protagonisti ed attorno a loro.
Il merito più grande dell’episodio rimane quello di averci, ancora una volta, fatto capire come la tecnologia che credevamo ci avrebbe fatto avvicinare sempre di più agli altri, ci stia invece portando a chiuderci sempre più in noi stessi.
Rachel, Jack and Ashley Too
Il terzo ed ultimo episodio di questa mini stagione di Black Mirror mette in scena una vicenda molto semplice, dallo scarso mordente e che di distopico non ha poi chissà quanto ci aspetteremmo. La protagonista dell’episodio è Rachel, ragazza liceale con problemi di inserimento a livello di amicizie, soprattutto per la sua scarsa autostima. Trova conforto e si rifugia nella sua unica e vera, a quanto pare, “passione”, la musica della star Ashley O, interpretata da Miley Cyrus. Esuberanti e simpatici brani pop, coreografie spettacolari e grande sicurezza di sé: Ashley O incarna tutto ciò che Rachel vorrebbe essere e sapere fare. Questa idolatria da fan trova il suo naturale sfogo e comincia a diventare pericolosa dal momento che viene lanciata sul mercato Ashley Too, una bambola/robot “ispirata alla vera personalità di Ashley O, capace di fare conversazioni a tema ragazzi e dare consigli sul trucco”. Inutile precisare che questa bambola sarà il regalo di compleanno di Ashley, che finalmente trova in essa una vera “amica”, capace di spronarla verso i propri obiettivi. Una vera svolta, insomma.
Ma si sa, come saggiamente espresso da Esopo oltre 2000 anni fa, “non è tutto oro quel che luccica.”
Ed è questa la premessa moraleggiante da cui cominciano a dipanarsi gli avvenimenti a circa metà episodio, mai, tuttavia con vere sorprese e svolte narrative, sempre con quella sensazione di assistere ad un prodotto davvero poco maturo, dove la banalità regna sovrana.
Il tema principale trattato in “Rachel, Jack and Ashley Too” è lo sviluppo della robotica e dell’intelligenza artificiale, con tutte le degenerazioni annesse e derivate. Il problema vero è che lo sceneggiatore ha deciso, su questi aspetti, di non spingere sull’accelleratore, e tutto rimane decisamente all’ acqua di rose, lasciando il campo ad un dramma intimo e personale, di cuore insomma, più che di tecnologia. In quest’ultima chiave risulta apprezzabile l’idea dell’estrazione delle note musicali dall’attività cerebrale di un paziente – con conseguente assemblaggio in canzone- ma rimane solo accennato e poco funzionale all’intreccio.
Il tema della derattizzazione, paventato in varie scene, risulta un mero diversivo su cui lo spettatore punta il suo all-in sin dall’inizio dell’episodio, nella speranza di qualche brusca virata e delirante ribaltamento delle vicende, che rimangono invece piuttosto piatte, o, se preferite, poco emozionanti.
Anche la negativa figura della zia-manager finisce per risultare stereotipata e troppo presto, nella sua monoliticità, esaurisce la sua carica di antagonista spietata e senza cuore. Niente da eccepire alla performance, sia attoriale che canora, di Miley Cyrus, che entra in un personaggio che sembra calzarle effettivamente in modo efficace.
A proposito di musica, nel principale brano musicale dell’episodio, peraltro orecchiabile e riuscito, Miley canta “I wanna get what I deserve”. Per noi, tirando le somme, questo episodio si merita una bella insufficienza.