“Brightburn:l’angelo del male” è un film del 2019 diretto da David Yarovesky e prodotto da James Gunn. La pellicola, uscita a poche settimane dal kolossal “Avengers – Endgame”, va a inserirsi nel fortunatissimo filone supereroistico, ambendo però a una propria identità prettamente horror.
A distanza di ormai cinque anni, vale ancora la pena di ricordare questo film?
Nonostante diversi difetti, che non mancheremo di trattare nella recensione, senza dubbio sì.
TRAMA
Brightburn, Kansas. I coniugi Tori e Kyle Breyer stanno cercando, invano, di avere un figlio. I loro desideri verranno esauditi quando una navicella, con all’interno un neonato, si schianta nel loro campo.
Il bambino, a cui daranno il nome di Brandon, cresce sano e forte…forse, fin troppo forte. Nulla sembra infatti ferirlo, tant’è che i Breyer non lo vedono mai sanguinare.
Nonostante tale particolarità, i primi dodici anni di vita del giovane trascorrono normalmente. Quando tuttavia Brandon inizia a captare dei segnali provenienti dalla navicella che lo ha portato sulla Terra, il suo atteggiamento nei confronti dell’ambiente che lo circonda inizia a mutare, mentre il suo corpo acquisisce nuovi, distruttivi, poteri…
RECENSIONE
“Brightburn”, come facilmente intuibile, è un’enorme rielaborazione della figura di Superman. Quello del Superman malvagio è un tema intrigante, già ripreso più volte dalla cultura popolare. Possiamo citare, per esempio, Homelander (The Boys), Omni Man (Invincible) e la versione di Superman apparsa nell’universo multimediale di Injustice.
L’arrivo di Brandon sulla Terra è una palese citazione dell’arrivo di Kal-El/Superman nella fattoria dei coniugi Kent , così come Brightburn riprende decisamente l’estetica rurale della Smallville della DC Comics. Là dove Superman costituisce però un emblema di bontà d’animo, con un extraterrestre che decide di farsi protettore del suo pianeta d’adozione, il percorso di Brandon Breyer è radicalmente diverso. Per quanto non subisca alcun trauma, crescendo in un ambiente sano e amorevole, Brandon non riesce a sottrarsi al proprio destino di conquistatore. Il bambino, in maniera inesorabile, sviluppa una coscienza di superiorità nei confronti degli umani, indipendentemente dal modo in cui essi lo hanno trattato.
Se inizialmente le sue azioni si configurano come una sadica vendetta, ben presto ci si potrà rendere conto di come ogni giustificazione decada a favore di una mera dimostrazione di superiorità. In tal senso, tra gli esempi fatti in precedenza, possiamo associare il giovane a Omni Man di Invincible, inviato sulla Terra per assoggettarla.
Il percorso di Brandon è portato su schermo da Jackson Dunn, che ha interpretato il ruolo in maniera ottima. Punto forte della performance è la mimica, che alterna sguardi beffardi a una freddezza colma di disprezzo.
Più sprecata è invece la presenza di Elizabeth Banks nei panni di Tori Breyer. Il problema, in verità, risiede più nella scrittura del personaggio che nella performance dell’attrice. Tori è infatti colei che, in virtù dell’amore materno, impiega più tempo ad ammettere il cambiamento di Brandon. Tale peculiarità va tuttavia a risultare esasperata e, in fin dei conti, anche poco plausibile. La scena in cui Tori trova i disegni con cui Brandon ha celebrato i propri crimini, più che sottolineare la completa corruzione morale del giovane, sembra quasi uno scherno nei confronti dell’ingenuità di una madre che deve essere letteralmente messa di fronte a un’ammissione di colpevolezza per credervi.
Gli omicidi che Brandon commette nel corso del film sono messi in scena in maniera assolutamente convincente, con una crescita lineare della suspence che porta a esplosioni di violenza creative e, in un paio di casi, davvero impattanti. Per proseguire coi parallelismi fra il protagonista della pellicola e Superman, è curioso notare come in una scena Brandon sollevi una macchina in maniera analoga a quanto rappresentato sull’iconica copertina di Action Comics #1, prima apparizione del famoso supereroe in calzamaglia.
Il costume da “eroe” di Brandon è il perfetto connubio fra iconicità, minacciosità e sapore “fai da te”. Azzeccata, a tal proposito, la scelta di inserire una scena in cui il bambino ne realizza lo sketch sul proprio quaderno, per riprendere le strizzate d’occhio al mondo supereroistico (è facile riportare alla memoria la scena in cui Peter Parker fa lo stesso nel film del 2002 di Sam Raimi). Peccato, tuttavia, che le scene in cui Brandon indossa il costume siano penalizzate da tagli veloci e campi lunghi, che non permettono di goderne a pieno.
Piccola curiosità: il logo che Brandon idèa e con cui, macabramente, firma le proprie azioni è pressoché identico al marchio dei condannati del capolavoro dark fantasy “Berserk”. E’ probabile che sia solo una coincidenza, ma non sfuggirà ai fan del manga del compianto Kentaro Miura.
Così come Superman, anche Brandon ha una debolezza: il metallo da cui è composta la sua navicella. La scena in cui il bambino, per la prima volta nella propria vita, subisce un graffio è perfetta. Jackson Dunn è riuscito benissimo a incarnare lo stupore di qualcuno che sperimenta una precedentemente sconosciuta sensazione di vulnerabilità. Tuttavia, a tale passaggio non corrisponde un vero e proprio payoff. Tori cercherà, sì, di ferire il figlio con un frammento del metallo, ma quel timore così genuino verrà del tutto trascurato. Sarebbe stato semplice dare un maggiore risalto alla minaccia che quell’unica debolezza costituisce per il giovane. Il finale, completamente negativo, è perfettamente azzeccato per il tono del film, ma sarebbe forse stato meglio farlo arrivare dopo un conflitto un po’ più articolato tra madre e figlio.