M. Night Shyamalan e il suo nuovo film apocalittico: Bussano alla porta è in sala dal 2 febbraio e merita assolutamente la visione.
M. Night Shyamalan torna alle atmosfere apocalittiche di E venne il giorno, con un incipit accattivante: La quiete di una famiglia composta da una coppia di uomini e una bambina viene stravolta quando dei misteriosi individui irrompono nella loro casa chiedendo un sacrificio per scongiurare la fine del mondo.
Knock at the cabin, M. Night Shyamalan dopo Old
Knock at the cabin (titolo originale) è il film che il regista aveva da contratto per Universal dopo aver realizzato Old (2021). Anche qui ci troviamo davanti a un’opera con un’interessante commistione di generi, che cerca di sovvertire quella che è la struttura più convenzionale del film apocalittico. Bussano alla porta, è tratto dal libro The Cabin at the end of the world (2018) di Paul Tremblay, la sceneggiatura è stata riscritta dal regista dopo una prima stesura che gli fu affidata. Il libro (secondo chi l’ha letto) tratta la parte finale in maniera più pessimistica, e si leggono pareri contrastanti, ma l’impressione è che i cambiamenti fatti dal regista siano azzeccati.
Viene in mente anche una similitudine con il film Il Sacrificio del cervo sacro (2017) che a sua volta si ispirava a una tragedia di Euripide. Ma a differenza del libro (e film di Shyamalan), il sacrificio serviva per scongiurare la morte di tutta la famiglia, e non dell’umanità.
La narrazione in Knock at the cabin è coesa e ben strutturata, già dalla prima scena riesce a catturare l’attenzione dello spettatore senza mai dilatare inutilmente i tempi. Non che fossimo abituati male con i precedenti lavori del regista, ma in quest’ultimo film la struttura appare più ragionata e matura per quanto riguarda la psicologia dei personaggi e le loro dinamiche all’interno della narrazione.
Una messa in scena sempre precisa e attenta ai dettagli, un’atmosfera costantemente claustrofobica e ansiogena, sia dentro che fuori la location principale. Colpisce la naturalezza nel dialogo, con una recitazione più umana di altri suoi lavori precedenti. Knock at the cabin si avvicina a The Visit per quanto riguarda un approccio più realistico e credibile nella recitazione (azioni/reazioni dei personaggi). Sfruttando questa lucidità nel dirigere gli attori, Knock at the cabin si eleva fra i suoi film più maturi ed emotivi.
Oltre all’immancabile cameo (o piccolo ruolo) del regista, convince pienamente tutto il cast. A Dave Bautista viene affidato il personaggio leader dei quattro stranieri, e dimostra di essere all’altezza di ruoli complessi e drammatici come questo. Ritroviamo Rupert Grint che aveva già lavorato per Shyamalan nella serie Servant, e scelte interessanti come Jonathan Groff, Ben Aldrige e Nikki Amuka-Bird.
Lavorando su un adattamento si nota una maggiore coerenza nella scrittura dei personaggi, con un’intensità che regge anche nei momenti più inverosimili, restando sempre credibile. E questa è la sfida più difficile per qualunque regista.
Shyamalan in questo film è particolarmente attento al montaggio e al ritmo, con una precisione formale che sorprende senza risultare pretenziosa. Molto interessante l’uso dei primi piani e della messa a fuoco (la profondità di campo usata solo quando serve), ogni inquadratura è ragionata per dare continuità a questa sensazione straniante e claustrofobica, che fa da contrappunto all’ambiente ampio e idilliaco. Una scelta lodevole anche quella di continuare a usare la pellicola 35mm, come per Old, e il regista afferma che per il suo ultimo film sono stati usati degli obiettivi anni ’90 per dare alle immagini un look caratteristico di quegli anni. Knock at the Cabin è sempre teso e snervante, sebbene si svolga principalmente in un luogo, e troviamo probabilmente l’uso del flashback più maturo nel cinema del regista. Non ci sono ripetizioni nell’arco narrativo, ogni scena è essenziale e aggiunge qualcosa al racconto e ai personaggi. Quello che viene omesso nel prologo è mostrato in seguito grazie ai vari flashback.
Il regista sovverte da subito la struttura di un home invasion, già nella primissima parte vediamo questi quattro stranieri che catturano i protagonisti, cercando di convincerli che non sono mal intenzionati.
Temi e situazioni ricorrenti nel suo cinema
Come in altri film del regista, si parte quasi sempre da una famiglia e da questa unione e stabilità che viene scossa da un evento esterno. I suoi due film più simili a Knock at the cabin sono The Happening (E venne il giorno), per il concetto di natura ostile che si ribella all’uomo, e Signs, per come mette al centro di tutto una famiglia felice sconvolta da un evento esterno.
In Knock at the cabin diventa più importante l’azione dei protagonisti che vengono letteralmente messi davanti ad una scelta per scongiurare l’apocalisse.
Dal trailer può sembrare (per chi non conosce questo regista) un film apocalittico superficiale, ma riesce a elaborare implicitamente diversi simbolismi incentrati su argomenti come l’omofobia, la famiglia e la fede. Il film ha infatti per protagonisti una coppia gay, interpretata da Jonathan Groff e Ben Aldridge (entrambi gay nella vita reale), con la loro figlia adottiva. Nell’etica della scelta sono i due personaggi da cui dipende il destino dell’umanità (sempre che sia tutto vero…), ed è interessante osservarli mentre reagiscono a questa situazione durante lo svolgimento, con una carica emotiva impressionante. Knock at the cabin riesce ad affrontare questi temi in maniera sottile e intelligente, senza esplicitarli o scadere in una facile retorica.
– Parte Spoiler –
Shyamalan ha sempre lavorato con concetti non ordinari, ed è anche questo distinguerlo; non è un autore che cerca il compromesso quando vuole azzardare le svolte narrative più inaspettate. Knock at the cabin è ambizioso nel senso opposto, non vuole sorprendere con il ribaltamento finale, ma cerca (riuscendoci) di essere efficace e memorabile senza la necessità di plot twist. Shyamalan presenta allo spettatore una situazione intelligente, inquietante e carica di emotività. Durante lo svolgimento ci si chiede spesso se sia tutto vero quello che affermano i quattro stranieri, non sappiamo mai da che parte dovremmo stare e questa ambiguità mantiene costante il coinvolgimento. Senza dubbio è fra quei film che riescono a creare dibattito per giorni, immaginandosi a dover prendere quella scelta al posto dei protagonisti.
La costruzione della tensione nella prima parte è da manuale di regia, lo spettatore è messo costantemente sullo stesso piano dei due protagonisti: non abbiamo mai più o meno informazioni di loro, anche quando arriva un importante flashback si tratta di un ricordo che il personaggio di Andrew non aveva considerato fino a quel momento.
Non è casuale la scelta di una coppia gay, una coppia felice e innamorata che inevitabilmente si è scontrata con atteggiamenti omofobi e bigotti in passato. Eric e Andrew fanno ancora più fatica a credere a questi stranieri, perché non si tratterebbe del primo atto di odio e violenza nei loro confronti. Qui entra doppiamente in gioco la fede come in altri film del regista. Per credere alle parole di queste persone devono prima di tutto accettare il fatto che non agiscano per motivi legati alla loro natura sessuale.
Si tratta di una messa in scena come sostiene Andrew? A mettere a dura prova la tesi di Andrew c’è il notiziario in televisione, a confermare gli avvenimenti apocalittici annunciati Leonard (Dave Bautista). Similmente ad altri film del regista (in particolare Signs), il “televisore” diventa un elemento fondamentale per i personaggi. In alcuni momenti sembra essere un vero e proprio Dio ai loro occhi, e curiosamente il regista appare all’interno dello schermo, un po’ come un Demiurgo che manovra tutto.
La realtà passa attraverso le immagini trasmesse dai notiziari: questi disastri climatici e ambientali, come in The Happening, rappresentano chiaramente la natura pronta a ribellarsi all’uomo. Eric in un momento di cedimento sostiene di aver visto una figura di luce. Shyamalan è attento a non banalizzare il discorso sulla fede e sull’intervento divino, ci fa solo percepire la presenza di questa energia universale (o elettromagnetica) che non è necessariamente benevola. I rimandi biblici sono probabilmente l’azzardo più grande nella narrazione: i Cavalieri dell’Apocalisse sono quattro figure simboliche introdotte nell’Apocalisse di Giovanni, successivamente presenti nella cultura medievale e in quella contemporanea. Nel finale potrebbe sembrare fin troppo inverosimile il dialogo fra i due protagonisti, ma considerando la presa di coscienza di Eric dopo la visione, è plausibile anche la sua improvvisa fede.
Shyamalan è anche un regista divisivo, che difficilmente lascia indifferenti. Ma Knock at the cabin potrebbe convincere anche lo spettatore meno appassionato di horror e/o altri lavori del regista. Vi consiglio quindi di non pensarci troppo e correre in sala a vederlo.
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