Era il 2002 quando il giovane di belle speranze Eli Roth debuttava sul grande schermo con un film a budget contenuto che prendeva a modello gli esordi di Sam Raimi, autore di cui condivideva passioni, influenze e una spensierata sfrontatezza da “o la va o la spacca”.
Nasceva quindi Cabin Fever, film omaggio al cinema horror di un cinefilo fan, che non si nascondeva dietro a velleità autoriali ma anzi, citava pesantemente situazioni, personaggi ed atmosfere riconducibili a decine di pellicole precedenti.
TRAMA
Cinque amici decidono di trascorrere qualche giorno in un cottage immerso nei boschi. L’incontro fortuito con un cacciatore contagiato da una terribile malattia farà degenerare la situazione nel gruppo, tra paranoie crescenti e disperati tentativi di sopravvivere.
IN PRINCIPIO FU RAIMI
Eli Roth non ha mai nascosto il grande impatto che su di lui ebbe Evil Dead di Sam Raimi. Difficile sarebbe comunque negarlo visto che l’incipit della vicenda, con l’arrivo degli amici al cottage, punta chiaramente a farci entrare nelle atmosfere tra il bucolico e il faceto che già furono percorse dall’autore de La casa.
Chiaro anche il riferimento alla popolazione locale, sempre in bilico tra l’accogliente e l’inquietante, con personaggi bizzarri e fuorvianti nelle intenzioni, evidente strizzata d’occhio ad Un tranquillo weekend di paura.
SOPRA LE RIGHE PER SCELTA
Al di là di citazioni e rimandi che da L’ultima casa a sinistra arriveranno perfino a Shining, Cabin Fever è un prodotto che, pur con i limiti di un’opera prima creata sull’onda dell’entusiasmo, riesce ad avere peculiarità proprie specialmente per ciò che riguarda l’approccio cinico e a tratti scellerato che i suoi protagonisti mantengono per tutta la durata della vicenda.
In un crescendo di tensione, a seguito del dilagare di un contagio inaspettato e misterioso, assisteremo infatti ad un radicale incattivirsi dei presunti amici, che non si fermeranno di fronte a nulla nella disperata impresa di salvare la pelle.
PAURA SPECCHIO DEI TEMPI
Il contagio è al centro di Cabin Fever. Non uno spirito maligno, un pazzo omicida o una bestia rabbiosa ma una invisibile e terribile malattia fulminante che si propaga dalla prima sequenza, con il cacciatore che trova un cane divorato dal morbo, fino all’apocalittica immagine del finale, nella quale si intuisce che l’acqua contaminata del luogo verrà esportata ovunque.
Il contagio fisico della malattia è il vero mostro da temere, anche se poi ad esso si aggiungerà anche un contagio della paranoia, con i giovani pronti a dubitare gli uni degli altri in un crescendo di sospetti che ricorderà La cosa di Carpenter, ennesima citazione.
Il nemico in Cabin Fever è un male invisibile che non sappiamo chi ci ha inviato. Siamo nei primi anni duemila, in un’ America che, ancora angosciata dai fatti dell’11 settembre, solo l’anno prima aveva vissuto il traumatico periodo degli attacchi all’antrace, minaccia mortale da un nemico invisibile, probabilmente interno, che poteva essere il vicino di casa.
IL SENSO DI ELI PER IL CINEMA
Pur con i suoi limiti Cabin Fever ha il merito di aver dato spazio e visibilità a Roth, regista che in questi anni pur con esiti altalenanti è riuscito a sfornare pellicole di genere interessanti e spesso rivolte a riproporre atmosfere e tematiche di quel cinema di genere (anche italiano) che ha fatto la storia. Non a caso Roth è stato quasi subito notato da Tarantino (che gli produrrà Hostel) altro regista che non ha mai nascosto le proprie ispirazioni anzi, le ha elevate a cinema nuovo.
Chiudendo con gli omaggi che Cabin Fever rende al cinema di genere, come non notare che quel finale, con la corsa baldanzosa del giovane superstite verso una presunta salvezza, ricorda in maniera inequivocabile il finale di Danza Macabra (ripreso poi nel remake Nella stretta morsa del ragno) di Antonio Margheriti? Altro autore culto per una generazione di cineasti americani che, a cavallo tra nuovo e vecchio millennio, ci hanno ricordato più volte quanto l’Italia abbia dato (per poi dimenticare) all’immaginario cinematografico mondiale.