Questo nuovo Candyman è il quarto di una serie di film ma è la diretta continuazione del primo. Prodotto e co-sceneggiato da Jordan Peele, per la regia di Nia DaCosta.
Trama del nuovo Candyman: Anthony è un artista in crisi affascinato dalla storia di Candyman, decide di scoprire se la leggenda sull’oscura presenza sia vera o falsa. L’assassino-spettro con l’uncino sta cercando un nuovo corpo da usare come spirito vendicatore?
Prodotto e sceneggiato da Jordan Peele (Get Out e Us), è un sequel spirituale (per restare in tema) del film del 1992, tratto dal racconto di Clive Barker: The Forbidden. Progettato per essere fruito da una nuova generazione di spettatori, questo nuovo capitolo ha senso compito anche senza aver visto il primo film, ma consigliamo comunque di recuperarlo perché è un cult dell’horror anni ’90. Il Candyman di DaCosta è una nuova versione del franchise che ha una voce tutta sua, solleva importanti domande e aggiunge un tocco moderno.
Una delle idee più interessanti che Nia DaCosta e i co-sceneggiatori Win Rosenfeld e Jordan Peele hanno avuto è trasformare Candyman in una figura in continua evoluzione, sempre presente con nomi e retroscena diversi. La regista usa le dinamiche razziali di Cabrini-Green, quartiere gentrificato di Chicago, per creare una storia sulla violenza razziale.
Mito e leggenda metropolitana
L’incipit del primo film resta invariato. Pronuncia il nome di Candyman cinque volte davanti ad uno specchio e sarai visitato dallo spirito uncinato di Daniel Robitaille, un ritrattista afroamericano ucciso da una folla inferocita nel 1890 dopo essersi innamorato della figlia di una figura della società bianca. Accompagnato da uno sciame di api, Robitaille, alias Candyman, ti ucciderà subito (se sei fortunato) o deciderà di divertirsi un po’ con te.
La versione di DaCosta si apre con un flashback nel 1977, ascoltiamo un’eco della canzone caratteristica di Sammy Davis Jr, The Candy Man. Fra gli edifici a schiera di Cabrini-Green, la polizia sta pattugliando per un assassino locale, un uomo di colore con un gancio attaccato al braccio. È stato accusato di aver messo lame di rasoio nelle caramelle e di averle date ai bambini. L’uomo viene ucciso dai poliziotti a sangue freddo, la leggenda metropolitana continua a tramandarsi, aggiungendo un nuovo tassello.
Un messaggio esplicito sulla violenza razziale
Il trauma generazionale è il tema principale qui: l’idea che la violenza razziale perpetuata sugli afroamericani consenta un ciclo infinito di dolore e sofferenza. Ogni generazione ha la propria versione di Candyman, poiché è la personificazione della rabbia e di un odio infuriante e ronzante verso le ingiustizie e gli abusi. Candyman di DaCosta è una tragedia a tre atti, presuppone che il ciclo fino ad ora non è stato interrotto e che ce ne sarà sempre uno nuovo.
Gli autori decidono di usare la tradizione e la mitologia di Candyman non solo al fine di realizzare un film cruento ed inquietante, ma anche per ribadire la consapevolezza sociale e d’attualità di quanto accaduto di recente dopo la morte di George Flyod, di come il Black Lives Matter siano soprattutto quelli che non lasciano impunite queste imperdonabili brutalità.
I crimini e le atrocità del passato tornano letteralmente per ucciderci e sfogare su di noi quella rabbia e sofferenza atroce. Riprendendo il suo ruolo per la quarta volta, Robitaille (Tony Todd) è tenuto nell’ombra per gran parte del film, passando in secondo piano rispetto agli orrori personali che i protagonisti della narrazione scoprono da soli. Lo spettro della supremazia bianca è intrinsecamente legato agli eventi del film, dalle origini di Daniel Robitaille al pestaggio di Sherman Fields, fino ad un climax esasperante.
Gli aspetti più riuciti
Piuttosto che trasformare l’omonimo film del 2021 in un remake, Nia DaCosta fa avanzare la storia in un sequel che rimuove ulteriormente gli strati dei temi del primo film. Da un punto di vista visivo, Candyman è girato con uno stile più minimalista optando anche per soluzioni visive alla Jordan Peele. L’uso di specchi e luci d’atmosfera aiutano la narrazione mentre enfatizzano il disagio e l’orrore. Interessante anche la scelta di usare l’arte contemporanea con il protagonista che si frammenta in parallelo alla sua crisi artistica.
Anthony McCoy, interpretato da Yahya Abdul-Mateen II, rende in maniera credibile questa sua ossessione per Candyman, e sono interessanti anche le opere che vediamo realizzate durante il film. Se la cava bene il resto del cast fra prove più o meno convincenti.
Decisamente riuscite sono le uccisioni da vero slasher-horror, Candyman è un film che non cerca i jumpscare ma piuttosto punta verso un’estetica che sia efficace nell’insieme. La scena finale è a mio avviso la migliore del film, l’essenza di Candyman, e forse sarebbe stato meglio giocarsi queste carte prima e non soltanto alla fine.
Gli aspetti meno riusciti
Le dinamiche urbane del ghetto, in un quartiere oggi gentrificato e meno degradato, sono meno approfondite dell’originale. Il messaggio sulla violenza razziale invece risulta fin troppo esplicito, a differenza dei film diretti da Peele che sono meno didascalici.
Mi aspettavo di ritrovare quell’atmosfera di morte sanguinolenta che si respirava pesantemente nel film del 1992, e anche nei suoi due seguiti meno riusciti. Perché prima di tutto è Candyman stesso ad ammetterlo: Io sono presagio di sventura. Lo svolgimento risulta abbastanza prevedibile, non che avrei preferito dei plot twist, ma almeno qualcosa di meno scontato.
La componente body-horror non mi ha convinto molto e avrei evitato scene che ricordano quasi La Mosca di David Cronenberg. Non fa che perdere credibilità quando il protagonista trascura la sua salute davanti ad evidenti complicazioni. Nel complesso sembra un film che non riesce mai a prendere una direzione, mescolando body-horror, arthouse horror e slasher più da teen-movie.
“Alcuni dei miei riferimenti sono stati film come La Mosca per l’orrore corporeo e Rosemary’s Baby che è uno straordinario ritratto del terrore psicologico, con una magnifica scenografia.”
Nia DaCosta
Candyman è comunque un’opera audace che merita una visione al cinema, una miscela di stile e sostanza i cui temi sono altrettanto inquietanti quanto il suo temibile antagonista. Gli autori lasciano le porte spalancate per un ritorno di Candyman in qualsiasi momento. Tutto quello che devi fare è ripetere il suo nome cinque volte.
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