Presentato alla 81ma Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Cloud è un thriller psicologico che sfocia nell’horror. Un altro grande film del maestro Kiyoshi Kurosawa. A distribuire in Italia è Minerva Pictures.
Per chi non ha ancora avuto modo di approfondire la sua filmografia, Kiyoshi Kurosawa (e ripetiamolo, non è parente di Akira Kurosawa) è uno dei registi giapponesi più importanti e influenti dagli anni 80′ a oggi, con più di 40 film realizzati. Spaziando sempre fra i generi, ha anche il merito di aver ridato linfa vitale all’horror giapponese (J-horror), con una rinascita del genere che caratterizzò la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000. Cure (1997) è senza alcun dubbio il suo capolavoro, si tratta per lo più di un thriller psicologico, che richiede più di una visione per via della sua complessità. Altri titoli importanti per il genere sono stati Pulse (Kairo, 2001), Retribuiton (2006) e Creepy (2016).
In questo 2024 Kiyoshi Kurosawa ha presentato tre film diversi, anche se girati nell’arco di due anni. Inizialmente a Berlino con Chime, un mediometraggio horror (fra i suoi lavori migliori in assoluto, ma ancora inedito da noi) che è poi approdato in digitale in Giappone. A giugno invece è uscito il suo remake francese Serpent’s Path (l’originale, sempre suo, era del 1997), e poi Cloud presentato in anteprima a Venezia il 30 agosto. Proprio a Venezia ho avuto il piacere e l’onore di intervistarlo, lasciando anche spazio verso la fine per una domanda sul cinema horror italiano.
Per chi abita a Roma o Milano potete approfittare in questi giorni fino alla fine di settembre per vedere Cloud nelle rassegne “Da Venezia a Roma” e “Le vie del cinema”, mentre la data d’uscita ufficiale in Italia non è stata ancora comunicata. Una notizia certa invece è che Cloud è stato scelto come il film che rappresenterà il Giappone per i prossimi Academy Awards (Oscar) che si svolgeranno il 2 marzo 2025. Sempre che riesca a farcela entrando nella cinquina dei migliori film stranieri.
Sebbene sia principalmente famoso per i suoi thriller e horror, Kiyoshi Kurosawa cerca sempre di non vincolarsi all’interno dei canoni di un determinato genere, spingendosi sempre oltre. Si può comunque trovare una costante in tutte le sue opere, sia a livello estetico che narrativo, e una caratteristica peculiare è il lavoro sul sonoro per creare un’atmosfera rarefatta e criptica. I suoi lavori necessitano sempre di una seconda visione per essere compresi al meglio, anche per i cinefili o critici più esperti.
Cloud combina crime, thriller e horror muovendosi su un territorio più ostile e poco esplorato nel suo cinema. Il protagonista è un reseller (rivenditore online) che si fa chiamare Ratel (il vero nome è Ryōsuke). Un personaggio che si arricchisce grazie a strategie capitalistiche che lo portano poi ad avere il monopolio su alcuni prodotti. Lo fa comprando in lotti per poi rivendere al singolo con prezzi maggiorati, accumulando merce nel suo appartamento angusto e caotico, che rappresenta un po’ il caos che lui stesso alimenta. Come nel gioco d’azzardo non riesce a frenarsi e raggiunge un punto di non ritorno quando l’odio online nei suoi confronti si trasforma in violenza reale.
Come spesso accade nei film di Kurosawa, Cloud si muove su un confine sottile tra reale e irreale. Kiyoshi Kurosawa è un maestro nel rappresentare il vuoto emotivo della modernità, e anche quest’ultimo film esplora il tema dell’alienazione amplificata dai media. Con una narrazione gelida il film si può dividere in due parti, la prima è più misteriosa e tesa, mentre la seconda è più esplosiva e violenta.
In un mondo ossessionato dalla tecnologia e dalla identità virtuale, Ryosuke osserva i suoi prodotti in vendita mentre vanno sold out, come se fossero premi in un videogioco per salire di livello. La perdità dell’identità è un tema centrale nella filmografia di Kurosawa, e anche qui il protagonista viene risucchiato da questa spirale che lo allontana dalla stabilità morale. Rinuncia a un posto fisso in ufficio e decide di spostarsi in affitto in una casa sul lago, più spaziosa e lontana dalla città. In un’inquadratura da lontano la casa sembra quasi fluttuare, sospesa in un luogo che potrebbe essere una dimensione sospesa prima di sprofondare nell’inferno.
Il processo di disintegrazione dell’io è frequentemente associato a un’isteria collettiva, dove il caos e la paranoia si diffondono tra le persone, influenzando profondamente le loro azioni e reazioni. La manipolazione mentale è un altro elemento chiave nel cinema di Kurosawa, alcuni suoi film (come Cure, Creepy e Chime) mettono in scena meccanismi di controllo e influenze psicologiche che agiscono in modo subdolo sui personaggi, portandoli a compiere azioni estreme. Questa manipolazione si svolge sia a livello individuale che collettivo, e come regista sa come creare quelle atmosfere in cui le linee tra realtà e illusione diventano sfumate e indistinte.
Cloud è un titolo che richiama sia il cloud informatico (non-luogo virtuale) sia la folla di persone inferocite che lo circondano (come nuvole), perché si parla anche di disconnessione in un mondo in cui le relazioni tra le persone si stanno sgretolando e si perde la percezione della realtà. È interessante vedere come questo si manifesti nei personaggi di Kurosawa, diventando poi una riflessione più sottile su come tutti noi stiamo in qualche modo scivolando verso quella direzione.
Una regia ancora una volta magistrale quella di Kurosawa, con sguardo distaccato e minaccioso quando osserva i personaggi, senza dover forzatamente farci empatizzare con loro. Ryōsuke/Ratel ha una relazione con Akiko (Kotone Furukawa), ma lei sembra più interessata agli oggetti che accumula piuttosto che a Ryōsuke. Quando un vecchio compagno dell’università, Muraoka (Masataka Kubota) gli propone un affare, Ratel si scusa quasi per aver cercato di essere “felice” in modo convenzionale, come se stare con una ragazza fosse un tradimento verso il patto silenzioso tra loro due. Quello di truffare gli altri da dietro uno schermo. Il giovane e misterioso assistente è Sano (Daiken Okudaira), che si occupa delle faccende più sgradevoli (vediamo che è anche coinvolto con la Yakuza). Un ragazzo (nell’immagine sopra) che sembra completamente svuotato ma fedelissimo al suo nuovo collega.
Kiyoshi Kurosawa non lavora su strutture narrative convenzionali, e anche le scene d’azione sono messe in scena per ottenere un effetto straniante. Si passa da sequenze molto violente e realistiche ad altre più ipnotiche dove tutto sembra sospeso e irreale. L’attenzione maniacale per il sonoro è evidente anche in Cloud, ed è interessante notare come nella seconda parte ci sia un’enfasi particolare sul rumore degli spari. L’effetto è anche quello di trovarsi davanti a una sorta di simulazione videoludica che richiede uno sforzo in più da parte nostra per quanto riguarda la credibilità e un senso logico.
Prima di arrivare all’ultima scena (che più che apocalittica si potrebbe definire dantesca) ci si interroga su quanto ci sia stato effettivamente di horror in questo film. Perché in Cloud non ritroviamo i fantasmi di alcune sue opere celebri, qui vediamo tante persone comuni che agiscono irrazionalmente: l’identità l’hanno già persa e sembrano muoversi in una dimensione sospesa, mentre sprofondano sempre di più negli inferi. Un dramma sociale che il regista affronta senza prendersi troppo seriamente, giocando con gli stereotipi e le aspettative del pubblico. Un esempio su tutti è il personaggio mascherato che invece di essere l’elemento spaventoso si rivela goffo e con una voce che sembra uscita da un cartone animato.
Come uno dei suoi horror più celebri – Pulse (Kairo, 2001) – esplora il mondo moderno intrappolato in una rete invisibile di crudeltà quotidiane e rancori, con tutte le assurdità che sfociano in un terrore psicologico. Senza dare lezioni o messaggi consolatori, mette in scena un delirio collettivo dove le sparatorie diventano una metafora perfetta delle interazioni online.
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