Copenhagen Cowboy è una serie di sei episodi creata da Nicolas Winding Refn per Netflix. Anche qui il regista danese ci ripropone il suo stile caratterizzato da luci al neon, colori saturi e musica synthwave.
Disponibile su Netflix dal 5 gennaio, questa miniserie è stata proiettata all’ultimo Festival del cinema di Venezia. Refn immerge questa storia di vendetta con le sue luci al neon e la fa vibrare con la colonna sonora di Cliff Martinez, con il suo synthwave ipnotico. Si tratta anche della prima opera quasi interamente in lingua danese di Refn da Pusher 3 (2005), questa miniserie (se non ci sarà un seguito) vede come protagonista Miu (Angela Bundalovic), il suo è un passato misterioso, e cerca la sua vendetta nella malavita di Copenhagen.
Per chi già conosce la filmografia di Nicolas Winding Refn (NWR) e la sua evoluzione stilistica, sa anche cosa aspettarsi da questo Copenhagen Cowboy. Il regista ha avuto una notevole trasformazione/evoluzione nel corso degli anni, soprattutto a partire da Drive (2011), dove ha consolidato la sua visione per concentrarsi ulteriormente sul lato puramente estetico e sensoriale. Ormai Refn viene automaticamente associato alla fotografia con colori saturi e luci al neon, scene con musica synthwave che irrompe e violenza improvvisa. La particolarità dei colori usati dal regista deriva anche dalla condizione daltonica che altera la sua percezione. La narrazione nelle sue opere procede molto lentamente, decide invece di focalizzarsi sull’aspetto visivo e sonoro, con esplosioni di violenza (anche solo verbale) che ne spezzano il ritmo.
Ne consegue che una delle critiche negative più frequenti, soprattutto per quanto riguarda i suoi ultimi lavori, è proprio quella di dare troppa poca importanza alla narrazione. The Neon Demon, Solo Dio Perdona e Too Old to Die Young (miniserie Prime) rappresentano proprio questo estremo, dove il regista predilige la forma al contenuto. Copenhagen Cowboy prosegue su questa linea, e per poterla apprezzare dipende anche dal vostro rapporto con i suoi precedenti lavori. Il noir resta il genere di riferimento che il regista continua a reinventare in un’ottica post-moderna, qui in chiave più fiabesca e dark. In alcune sequenze mi ha ricordato Cuore Selvaggio di Lynch, anche se nel film del 1991 la componente onirica era utilizzata in un’estetica più classicista a omaggiare film del passato.
Tematicamente non si discosta molto dai suoi ultimi lavori, anche qui troviamo al centro di tutto la vendetta e il comportamento violento, non manca la mercificazione del corpo femminile, la misoginia e la depravazione. Quest’ultima trova una sua espressione metaforica con questo ricorrente stridìo di maiali, che in parte funziona ma dopo il primo siparietto potrebbe stancare. A differenza della serie Too Old to Die Young, qui abbiamo toni meno seriosi, con una componente soprannaturale e fantascientifica che forse poteva essere sfruttata meglio. Miu è descritta come se fosse un alieno (angelo?) sceso dal cielo, verso la fine la vediamo camminare in una foresta dove incontra numerose altre donne, tutte vestite con abiti blu come i suoi.
Il regista dimostra di essere ancora più a suo agio con l’astrazione e i tocchi surrealisti, in una sequenza arriva a rappresentare uno scontro a fuoco tra bande con soltanto le armi che sparano e le persone colpite dai proiettili che svaniscono. Copenhagen Cowboy è più interessante quando si appoggia soltanto sui simbolismi, senza risvolti narrativi ridondanti. In poche parole si potrebbe descrivere il tutto come una risalita dalle tenebre verso la luce, gli inferi inizialmente sono il bordello gestito dalla signora Rosella, mentre in seguito Miu supera vari livelli (un po’ come in un videogioco) di Copenhagen fino a raggiungere la natura e la luce nella parte finale. Lì può finalmente scontrarsi con la sua nemesi: Rakel. Indossa una divisa rossa che si contrappone a quella blu della nostra protagonista. La femminilità è contrapposta in queste due donne, Miu è rappresentata come l’angelo purificatore, mentre Rakel al contrario è il male incarnato. L’eterna lotta tra forze del bene e del male funziona da sempre, e non necessita di particolari spiegazioni. Un esempio su tutti è Twin Peaks, quando a scontrarsi sono la Loggia Nera e la Loggia Bianca.
La sceneggiatura è tutta al femminile: Sara Isabella Jønsson, Johanne Algren e Mona Masri. L’attrice Angela Bundalovic è Miu, protagonista misteriosa ed emotivamente imperscrutabile. Nei primi due episodi sembra voler iniziare una nuova vita, ma si ritrova in un bordello clandestino. Nonostante la difficile situazione, Miu cerca di aiutare altre persone oppresse, facendosi strada fra la malavita di Copenhagen. Vaga per il nostro regno mortale, attraverso un mondo che non sembra appartenerle, mossa da un forte senso di giustizia non dissimile da quello di un angelo biblico. Nessun potere umano sembra poterla ostacolare. Attraverso questa odissea fra reale e soprannaturale, Miu scopre dettagli sul suo passato e i suoi legami con alcuni dei personaggi che incontra. Fino a scontrarsi con la sua nemesi: Rakel (Lola Corfixen, figlia del regista).
Miu è un personaggio che funziona perché come il pubblico è un osservatore spesso silenzioso. Una pedina della nostra natura voyeuristica, uno spettatore distaccato che cerca di ricomporre i pezzi di questo mosaico. Fino a quando l’osservatore diventa l’osservato, e anche noi siamo curiosi di scoprire qualcosa in più su questa misteriosa Miu. Certo, questa non è certo la prima volta che Refn racconta una storia incentrata su un protagonista silenzioso. Quando poi intravediamo barlumi di paura nei suoi occhi, ne percepiamo ogni momento. Il viaggio che intraprende è anche spirituale, affrontando l’oscurità che consuma questa città, per arrivare alla fine in un luogo liberatorio.
Per quanto mi sia piaciuto questo Copenhagen Cowboy, mi è sembrato un passo indietro dai suoi ultimi due lavori. Refn ha una sua impronta stilistica ben definita e che continua a stupire, ma in alcuni momenti si ripete in maniera ancora più ridondante. Mi sta bene quando prova a reinventarsi, meno quando diventa ripetitivo e quindi poco ispirato. Un altro aspetto che non mi convince è la struttura narrativa, avrei preferito una miniserie auto-conclusiva, a prescindere dalla possibilità di un seguito. Si tratta anche di una consapevolezza che ormai il regista dovrebbe aver maturato, e per quanto abbia un certo seguito, non ha le caratteristiche per compiacere un pubblico più ampio.
La trama è molto spesso messa in secondo piano, e i momenti migliori sono proprio quando si abbandona a un’esperienza sensoriale. Paradossalmente però risultano più bilanciate le sue due opere più radicali: The Neon Demon e Too Old to Die Young. Questo perché in Copenhagen Cowboy anche la parte narrativa è ridondante. Una narrazione più asciutta e semplice avrebbe dato più risaltare all’aspetto puramente sensoriale e quindi ipnotico dell’opera.
Il finale aperto, con il simpatico cammeo di Hideo Kojima, rende il tutto troppo giocoso: vediamo in videochiamata (tanto ormai non è più spoiler, si è visto anche sui loro profili social) Kojima che si riferisce a Miu come uno spirito, e dice a Miroslav che solo i Giganti possono aiutarlo a sconfiggerla. Una chiusura simile poteva funzionare in una serie meno pretenziosa e più mainstream. Certo, Copenhagen Cowboy ha diversi momenti grotteschi e sopra le righe, ma ciò non significa che non si prenda sul serio. Personalmente non sentivo questa necessità di sdrammatizzare, e come in altri momenti della serie ci ho visto più il solito giochino dell’autoreferenzialità.
Pensando alle dinamiche Netflix, molto probabilmente Copenhagen Cowboy non avrà un seguito. Di certo è da consigliare a tutti i fan di Nicolas Winding Refn, che difficilmente resteranno delusi. Ma per tutti gli altri: “Lasciate ogni speranza, o voi che entrate“.
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