Death Proof usciva nel 2007 inizialmente come double-feature in Grindhouse, omaggio ai film d’exploitation degli anni sessanta e settanta, il secondo segmento è Planet Terror di Robert Rodriguez.
Grindhouse, exploitation
Grindhouse è un termine americano per indicare quei cinema che proiettavano principalmente film horror, splatter e d’exploitation a basso budget per adulti. Solitamente utilizzavano pubblicità sensazionalistiche e accattivanti per stuzzicare gli spettatori, gli elementi quasi sempre presenti sono sesso e nudità, violenza, gore o altre rappresentazioni estreme. Tali film sono sempre esistiti, ma hanno avuto il loro periodo d’oro tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, quando la censura cinematografica si stava allentando a causa dell’influenza del cinema d’autore europeo. L’essenza dell’exploitation era nei contenuti estremi mentre qualsiasi elemento artistico o stimolante passava in secondo piano.
Il progetto iniziale aveva proprio il titolo Grindhouse, con una durata complessiva di 191 minuti, un film in due parti diretto da Quentin Tarantino con Death Proof e Robert Rodriguez con il suo horror splatter e romeriano Planet Terror. In seguito il film venne diviso in due parti, senza scartare la serie di divertenti fake trailer che impreziosiscono i due film e ben si collocano in quello stile rozzo dell’exploitation. I registi che hanno collaborato sono: Eli Roth con Thanksgiving, Rob Zombie con Werewolf Women of the SS, lo stesso Robert Rodriguez con Machete (che è poi diventato realtà nella sua filmografia), Edgar Wright con Don’t ed il trio composto da Jason Eisener, John Davies & Rob Cotterill con Hobo with a Shotgun (anche questo diventato poi un film).
Uno slasher senza le caratteristiche di uno slasher
Il punto di partenza per scrivere la sceneggiatura fu il fascino che Tarantino aveva sempre avuto per il mondo degli stuntmen, che in film come Punto zero, Convoy o Zozza Mary, pazzo Gary possedevano un’auto a prova di morte. Tarantino decise di dirigere uno slasher su uno stuntman ormai in pensione ossessionato dalle belle ragazze, e che prova eccitamento sessuale quando le uccide a bordo del suo potente bolide. Da notare che questo Death Proof è l’unico film di Quentin Tarantino che si svolge completamente in ordine cronologico e senza flashback.
Death Proof offre un dittico meta-cinematografico particolare: la prima metà del film è incentrata sulle migliori amiche Jungle Julia (Sydney Poitier), Shanna (Jordan Ladd) e Arlene/Butterfly (Vanessa Ferlito) mentre si dirigono verso la capanna del padre di Shanna, fermandosi per un drink e del cibo messicano. Dopo una breve sequenza di transizione in bianco e nero, il film passa ad uno stock di colori cristallini per presentare un nuovo gruppo di donne. Zoë (Zoë Bell, che interpreta se stessa), Abernathy (Rosario Dawson), Lee (Mary Elizabeth Winstead) e Kim (Tracie Thoms) con la sua iconica auto gialla (notare l’adesivo Pussy Wagon sul retro), scherzando più o meno allo stesso modo delle donne nel primo tempo, con l’immancabile carisma dei personaggi femminili del regista. Ignare che un killer noto come Stuntman Mike (Kurt Russell) le ha scelte come sue nuove prede.
Sembra il soggetto di un qualsiasi slasher, ma assistiamo invece ad un film che ribalta continuamente le aspettative e le regole di questo genere. Stuntman Mike ci viene inizialmente presentato come un personaggio per cui empatizzare, e quando scopriamo che sta per schiantarsi contro le sue vittime non riusciamo a tirarci indietro, siamo lì nella sua macchina in un crescendo di adrenalina e ormai vogliamo assistere a questo momento brutale. Prima che arrivi la metà del film ci ritroviamo davanti a nuove protagoniste, come se il film avesse premuto un tasto reset. Questa volta Tarantino ci dà il tempo di empatizzare con le ragazze, i ruoli tornano ad essere quelli di uno slasher convenzionale, fino al folle inseguimento finale (ripreso e montato con una maestria incredibile) quando le tre amiche diventano a loro volta predatrici senza scrupoli che annientano l’antagonista.
Stile tarantiniano questa volta portato all’estremo
Nei primi tre film, sempre con un’impronta stilistica che lo contraddistingue, Tarantino esplorava il genere noir e poliziesco. Con Death Proof cerca di riprodurre lo stile usato nei film d’exploitation anni sessanta e settanta, ma allo stesso tempo sfrutta questa occasione per spingersi oltre. Stacchi improvvisi, inquadrature sbilenche, zoom usati senza alcun freno, pellicola usurata e altri stratagemmi per rendere il film il più possibile simile a quelle vecchie pellicole. Per la prima volta il regista si è trovato a lavorare anche come direttore della fotografia, con risultati impressionanti, e uno degli aspetti più interessanti di Death proof riguarda l’intervento direttamente sulla pellicola, che è stata fisicamente logorata senza dover intervenire artificiosamente con il digitale. Nella prima parte i colori sono più desaturati, in una scena successiva il film diventa in bianco e nero, per poi passare improvvisamente a colori più saturi appena una delle ragazze usa un distributore di bevande, con il giallo che prevale su tutto.
Notevoli anche i contrasti con il blu che Tarantino usa quando escono dal locale di notte, e una delle ragazze intravede, insieme allo spettatore, la macchina di Mike.
Death Proof ha tutto ciò che serve per un ottimo film d’exploitation: eroine sexy e carismatiche, macchine stravaganti, look anni ’60/70 e violente sequenze di vendetta. Ma il film non si limita ad omaggiare la tradizione del grindhouse. Anzi, diventa la conferma di come il cinema d’exploitation abbia più di tutti plasmato la visione di Tarantino, in particolare la sua percezione dei personaggi femminili, che qui trovano l’espressione più libera nella sua filmografia. Bisogna infatti sottolineare la straordinaria forza delle sue attrici senza focalizzarsi troppo sul personaggio spietato interpretato da Kurt Russell.
Inoltre in Death Proof troviamo delle scelte registiche che risultano peculiari anche per questo genere di film, particolarmente riuscita la sequenza del primo scontro automobilistico, quando ci viene mostrata la tragica sorte di ogni ragazza ripetendo meccanicamente la stessa scena da diverse angolazioni.
I film che lo hanno ispirato per Death Proof
Quentin Tarantino è sempre stato affascinato dal modo in cui le auto acrobatiche erano a prova di morte, in modo che gli stuntmen fossero protetti da collisioni e incidenti ad alta velocità. Una particolarità che diventa l’incipit di questo film, dove uno squallido killer noto come Stuntman Mike va a caccia di giovani ragazze con la sua auto a prova di morte. Come omaggio, i numeri di targa delle auto di Stuntman Mike (JJZ-109 e 938-DAN) sono gli stessi dei film Bullitt (1968) e Dirty Mary Crazy Larry (1974), oltre a riprendere in parte lo stile di alcuni inseguimenti. Ma troviamo anche molti altri omaggi, ad esempio al film Punto zero (Vanishing point, 1971), Violenza sull’autostrada (White line fever, 1975), The Lady in Red (1979), Thriller: A Cruel Picture (1973), Un mercoledì da leoni (Big Wednesday, 1978) e Rolling Thunder (1977). Da quest’ultimo titolo anche l’idea del primo titolo considerato, che appare per un secondo nei titoli di testa, ovvero Quentin Tarantino’s Thunder Bolt.
Tarantino cita anche Coffy (1973) come uno dei migliori film di tutti i tempi. Il revenge-movie blaxploitation che vede come protagonista Pam Grier nel ruolo di una vigilante che inveisce contro lo spacciatore responsabile di aver trasformato sua sorella in una tossicodipendente. Una Pam Grier aggressiva e molto sicura di sé. Tarantino ha amato così tanto la sua interpretazione che ha scritto e diretto Jackie Brown (splendido noir) del 1997 pensando a Grier, che ha poi accettato il ruolo. Se avete visto o guarderete Coffy potrete notare che anche la musica è stata poi usata da Tarantino in Jackie Brown, niente di cui sorprendersi visto che è sua abitudine quella di riutilizzare alcuni brani di film del passato.
Roger Ebert (famoso critico che collaborò anche per alcuni soggetti di Russ Meyer) scrisse che <<Planet Terror e Death Proof sono “La notte dei morti viventi” e “Faster, Pussycat! Kill! Kill!” combinati insieme>>, e in effetti, Death Proof ricorda più di ogni altro film il Pussycat del regista cult Russ Meyer, in cui tre spogliarelliste senza scrupoli viaggiano attraverso la California perpetrando crimini e violenze allo scopo di arricchirsi. Russ Meyer è anche fra i nomi che Quentin ha ringraziato nei titoli di coda. Faster, Pussycat! Kill! Kill! (1965) è stato molto influente anche per molti altri registi, infatti lo sceneggiatore-regista John Waters ha dichiarato nel suo libro che per lui è senza dubbio il miglior film mai realizzato. Altri due film di culto, fra quelli di Russ Meyer, sono Up! e Beyond the Valley of the Dolls. Difficile citare solo qualche film o regista quando si parla di Tarantino, questi sono probabilmente alcuni dei titoli che hanno delle similitudini con Death Proof, ma se parliamo di ispirazione in generale allora dovremmo estendere di molto la lista.
Funzionano ancora i film d’exploitation?
In seguito al (prevedibile) flop statunitense, la Dimension Films decise di distribuire le pellicole in due parti divise, sperando di attirare più pubblico in sala. Tarantino ha presentato il film al festival di Cannes 2007 in una versione inedita che aggiunge oltre venti minuti di pellicola in più. Riguardo a quest’operazione, il regista ha dichiarato: <<Mi sono comportato proprio come i beceri distributori dei film d’exploitation, che tagliavano con l’accetta al limite dell’incoerenza. Ora invece vi mostro tutto.>> Probabilmente stiamo parlando di uno stile che ormai (ahimè) risulta poco accattivante, il revenge movie funzionerà sempre ma più in chiave moderna, con temi attuali ed un’estetica più pulita e convenzionale.
Non sorprende che la maggioranza del pubblico più mainstream lo abbia trovato un film poco divertente. Questo succede spesso con i film horror (e derivati) che non vogliono essere presi troppo sul serio, finiscono appunto per confondere le idee. Chiaramente non discuto i gusti cinematografici, ma quello che penso di aver imparato a riguardo, almeno dal mio punto di vista, è che ci sono diversi spettatori che associano questo genere di film soltanto a toni molto seriosi, scambiando per involontario tutto ciò che non è dichiaratamente parodistico. Ovviamente anche in termini di narrazione si tratta di un’opera che cerca di essere controversa e lontana dalla logica cinematografica convenzionale; omaggio o meno, Death Proof non è un film che consiglieresti a chiunque.
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