Era il 2001 quando Donnie Darko, cult assoluto scritto e diretto da Richard Kelly, uscì sugli schermi statunitensi passando quasi totalmente inosservato.
Presentato per la prima volta al Sundance Film Festival il 19 gennaio, fu distribuito nelle sale il 26 ottobre rivelandosi un immenso flop. Forse a causa del suo essere eccessivamente cupo e criptico, forse perché troppo prossimo al trauma dell’attentato alle Torri Gemelle (nel trailer si parlava proprio di un incidente aereo), fu il classico film sbagliato nel momento sbagliato. Bisognò aspettare il 2004, una nuova edizione dell’opera in versione Director’s Cut e la presentazione alla 61ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia per far sì che Donnie Darko ottenesse il successo che meritava anche a livello globale, mentre in patria già nel 2002 era diventato un misconosciuto cult grazie al passaparola, all’edizione home video e alle caratteristiche proiezioni di mezzanotte. In un’Italia costantemente in ritardo, la versione cinematografica del film arrivò proprio nel 2004, il 19 novembre, mentre la Director’s Cut approdò nel nostro mercato alla fine del 2005 direttamente in formato home video. Sono passati quindi 20 anni da quando Donnie Darko ha incantato gli spettatori italiani divenendo anche da noi un cult riconosciuto come uno dei film più affascinanti nella storia del cinema.
Trama
Donnie Darko (Jake Gyllenhaal) è un adolescente che vive nella provincia americana del 1988. È schizofrenico e soffre di sonnambulismo. Una notte, preda della visione di un mostruoso coniglio gigante di nome Frank, esce di casa per poi risvegliarsi, la mattina seguente, in un campo da golf. Una fortuna se si considera che quella stessa notte il motore di un Boing è precipitato nella sua stanza schiacciando il suo letto. Ma l’eccezionalità di questo fatto non è niente paragonato alla predizione che Frank ha fatto a Donnie: il mondo sarebbe finito tra 28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi. E l’unico a poterlo salvare sembrerebbe essere proprio il ragazzo, che dopo l’incidente pare aver ottenuto particolari poteri.
Un film di supereroi, a modo suo
Leggendo la trama sembrerebbe quasi di trovarsi di fronte a un film di supereroi. Ci sarebbero voluti ancora anni prima dell’esordio del Marvel Cinematic Universe che, tra eroi in calzamaglia, multiversi e miliardi di incassi ha definito lo standard del genere, ma Donnie Darko si è rivelato seminale anche per questo genere di cinema mainstream, nonostante di cinecomics ce ne fossero già stati altri. E no, non sto dicendo che Donnie Darko è un film tratto da un fumetto, bensì che il suo papà Richard Kelly lo ha sempre pensato come opera dal taglio visivo fumettistico e che, effettivamente, il suo protagonista è qualcuno che salva il mondo, anche se in modo assolutamente originale rispetto a un Capitan America o un Iron Man qualsiasi.
Pensandoci bene, Donnie Darko ha definito il concetto di multiverso in anticipo rispetto ai tempi. In quanto film di fantascienza, parla di viaggi nel tempo, ma non come un Ritorno al Futuro o L’Esercito delle 12 Scimmie. Piuttosto ammette come idea funzionale l’esistenza di una molteplicità di universi tangenti a quello principale con meccanismi che permettono di viaggiare non solo nel quando ma anche nel dove. Un tema che, a partire dall’opera di Richard Kelly, è stato affrontato innumerevoli volte e in molti modi diversi da cinema e televisione: basti pensare a film come Interstellar, Auguri per la tua morte (soprattutto il sequel) o il più recente Deadpool & Wolverine (che sembra quasi citarlo, Donnie Darko) o a una serie TV come Dark. Chiariamo bene però: Richard Kelly in Donnie Darko non inventa niente, semplicemente ammanta la propria opera di un’aurea esoterica e misteriosa che ha permesso a questo film di entrare nel mito.
Quindi, Donnie come super eroe involontario, addirittura predestinato, sulle cui spalle poggia il destino dell’universo. O, meglio, di tutti gli universi. Lettura che sembra il film stesso a suggerirci, tanto esplicitamente quanto simbolicamente. Ad esempio quando Gretchen Ross, ragazza appena trasferitasi nella cittadina del film (Middlesex, in Virginia), parlando con Donnie afferma che il suo nome sembrerebbe quello di un supertizio. O quando Donnie si scopre in grado di manipolare acqua e metallo. Oppure quando indossa il suo “costume” (il cappuccio della sua ormai iconica felpa) prima delle varie prove (o missioni) che dovrà affrontare per realizzare il proprio destino.
Donnie, personaggio tragico e messianico, che come Superman deve indossare il suo costume da Clark Kent per mimetizzarsi tra gli altri esseri umani e affrontare, nonostante tutto, il suo percorso di passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta.
Un racconto di formazione un po’mistery, un po’ sci-fi
L’anima di un film come Donnie Darko è molteplice e variegata, in grado poi di sdoppiarsi nel passaggio dalla theatrical alla director’s cut. Perché sì, si tratta quasi di due film distinti o, come suggerito dallo stesso regista, di un film e del suo remake. Quando l’opera di Kelly arrivò nei cinema per la prima volta stupì per la molteplicità di interpretazioni a cui si apriva. Forse per questo e per l’alone di mistero che si portava appresso, iniziò ad avere successo una volta uscito in DVD. Donnie Darko, nella sua versione “originale”, è un’opera che ti costringe a farti domande e ad interpretare. Un’opera che stimola lo spettatore a cercare una risposta personale che possa chiudere il cerchio di questo tortuoso viaggio forse esoterico, forse catartico, forse addirittura filosofico. Lo spettatore è portato, per istinto e semplice necessità, a dare le risposte di cui razionalmente necessita mentre emotivamente no. Perché narrativamente ed emotivamente Donnie Darko è un film completo nel suo rispettare la propria anima mistery, ovvero non dando risposte esplicite ai misteri che propone. E se è pur vero che Kelly si ispira nelle sue intenzioni al cinema surreale e grottesco di Terry Gilliam, in quello che propone nella sua versione tagliata c’è un’evidente ispirazione al cinema di David Lynch. Ispirazione che, per quanto sembri perdersi nella director’s cut, torna evidente nella sua successiva (seppur brevissima) carriera cinematografica.
La storia iniziatica di un giovane mago, quella di Donnie, che da Alice all’inseguimento del bianconiglio si rivelerà predestinato per la sua diversità a salvare il mondo nel mentre affronta i problemi di un qualsiasi adolescente americano, dal bullismo di coetanei problematici all’ottusità di adulti bigotti chiusi nel loro mondo illusorio e codificato fino all’esemplificazione annichilente. Dal primo innamoramento al rapporto conflittuale con la propria famiglia. Dalla paura quotidiana che attanaglia ogni essere umano alla curiosità che spinge a indagare ogni evento fenomenico, morte compresa. Tutto questo immersi nell’America sul finire dell’era reaganiana e che si sta aprendo, col confronto elettorale tra Bush e Dukakis, a un nuovo corso in cui traghetterà il mondo intero.
A complicare le cose arrivano poi i viaggi nel tempo e la loro filosofia con l’ormai celeberrimo libro di Roberta Sparrow detta Nonna Morte, ex suora ed ex insegnante ormai ultracentenaria quasi bloccata in un loop spaziotemporale. E forse in quel libro c’è la spiegazione a tutte le stranezze a cui Donnie assiste e che Donnie vive, la chiave per comprendere il mondo (o la dimensione) che lo circonda divincolandoci quasi dalla convinzione che tutto quel che sta accadendo sia dovuto alla fantasia del ragazzo. E seppur intriso di esoterismo e gnosticismo, quel libro donato dal professore di scienze Kenneth Monnitoff (Noah Wyle) al nostro protagonista apre il film ad una lettura fantascientifica a suo modo rassicurante, arrivando a completare il cerchio di incastri che Kelly è riuscito ad orchestrare.
La Director’s Cut (da qui ci potrebbero essere SPOILER)
La seconda versione di Donnie Darko contiene 20 minuti in più rispetto alla prima. Alcune delle scene inserite erano state tagliate per ridurre il minutaggio in vista dell’uscita nelle sale, altre erano state scartate. Quando il lungometraggio, ancora più lungo, tornò nei cinema vent’anni fa, fu una boccata di ossigeno per regista e produttori. Perché da fiasco totale neanche rientrato delle spese, divenne un successo planetario. Non è difficile capire il perché: un film indipendente, così cupo e sfuggente, non poteva andare d’accordo con un periodo della storia americana tanto cupo e sfuggente di suo, ma allo stesso tempo nessuna campagna pubblicitaria funziona meglio del passaparola. Drew Barrymore, che lo produsse per conto della sua Flower Films, ci aveva visto lungo. La sua fu una scommessa vinta sul lungo periodo, sia come produttrice esecutiva (coinvolse anche un altro paio di nomi famosi come Patrick Swayze, nel ruolo dell’ambiguo Jim Cunningham, e Noah Wyle), sia come attrice nel piccolo ruolo della progressista professoressa di lettere Karen Pomeroy. Ma, come già detto, quello uscito nei cinema nel 2004 è un film diverso. Cambiano persino le musiche da una scena a un’altra rispetto al film del 2001.
Soprattutto però, Richard Kelly decise sia di accontentare i fan alla ricerca spasmodica del fittizio libro La filosofia del viaggio nel tempo, sia di mettere in evidenza quella che è la sua interpretazione. Quindi inserì on screen estratti dal libro e aggiunse elementi fantascientifici in grado di definire Donnie Darko in un’ottica più marcatamente sci-fi, con uomini (forse) del futuro che intervengono direttamente manipolando Donnie, il recettore, in modo che rimetta le cose a posto dopo che un wormhole aperto accidentalmente ha incasinato il continuum spaziotemporale creando un universo tangente. E il problema è proprio quel motore di quell’aereo lì che dal futuro, tramite il wormhole, è precipitato nell’universo tangente sulla casa di Donnie, divenendo un artefatto. Se questo artefatto non tornerà nel suo universo d’origine, causerà il collasso dell’universo tangente e a catena di quello primario. Per fare ciò, questi esseri del futuro manipolano gli abitanti di Middlesex e sfruttano Frank, sì coniglio inquietante alto due metri ma anche l’inconsapevole “manipolato morto” fidanzato di Elizabeth (Maggie Gyllenhaal), sorella maggiore di Donnie, ucciso da Donnie stesso sul finire del film dopo che lui aveva investito Gretchen (Jena Malone), di cui Donnie era innamorato. Ed è cosi che il cerchio si chiude e che il nostro protagonista capirà che l’unico modo per mettere fine a quel loop quantistico che porterà all’apocalisse sarà sacrificarsi. Nonostante, effettivamente, quello a cui assistiamo è un ricatto emotivo che, facendo leva sulle sue paure, porta un adolescente ad accettare il proprio ruolo cristologico che, in quanto tale, si concretizza nel sacrificio. Perché, nonostante tutto sembri predestinato in questo fantascientifico universo meccanico, resta viva la scintilla divina dell’essere umano simboleggiata dal libero arbitrio.
Non c’è dubbio quindi che il libro diventi una sorta di manuale d’istruzioni del film, togliendo parte del fascino che lo aveva contraddistinto e che aveva portato i fan a inondare internet (era l’era dei blog e dei forum) di elucubrazioni e teorie, facendone la fortuna.
Capolavoro?
Donnie Darko non è certo un film perfetto. Probabilmente non è un capolavoro. Ma è sicuramente un film affascinante e sfaccettato, con attori perfetti nei loro ruoli (a partire da un giovanissimo Jake Gyllenhaal, che di lì a poco sarebbe diventato uno dei migliori attori della sua generazione), una regia particolarmente ispirata (Richard Kelly non ci riuscirà più e col tempo sparirà dai radar), una fotografia – diretta da Steven Poster – che interpreta in maniera impeccabile il tramonto degli anni ’80 e delle musiche praticamente perfette nel loro amalgamarsi alle scene, una su tutte la straordinaria interpretazione di Mad World ad opera di Gary Jules e Michael Andrews.
Soprattutto però, Donnie Darko è un film violentemente romantico, una di quelle opere in grado di stringerti il cuore facendolo ridere e facendolo sanguinare. Un viaggio melanconico e sognante che diventa esperienza individuale per ogni spettatore, oggi come ieri. Non è possibile non provare dolcezza e rimpianto, guardandolo o riguardandolo. E forse è proprio per questo che ancora oggi, a distanza di 20 anni, siamo qui a parlarne.
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