Il secondo romanzo di Mattia Gelosa (dopo “Negli occhi del Diavolo” del 2011, edito da Il Grappolo) è “E poi tornarono le lucciole“, un thriller a tinte soprannaturali ambientato nelle risaie piemontesi.
In un piccolo paese arriva da Ginevra il commissario Florence, uomo brillante, ma con un trauma alle spalle legato all’alcolismo (che combatte con un grottesco rimedio) e l’incubo ricorrente di una bambola/bambina il cui viso improvvisamente si scioglie tra le fiamme. La vita di provincia sembra pacifica e serena, ma dalle prime nebbie autunnali riappare dopo decenni la Cativoira, la strega delle leggende locali che rapisce i bambini cattivi.
Il paese va nel panico, il commissario invece minimizza tutto. Finché alle successive apparizioni seguono due feroci delitti: quello del ricchissimo proprietario di un castello-hotel della zona e quello del titolare di un’azienda vinicola. Si tratta solo dell’inizio di una lunga catena di sanguinosi crimini e, come se non bastasse, Florence e la sua piccola squadra (gli agenti Fred, Fabio e Lina) ricevono anche delle strane minacce.
Tra personaggi stravaganti, incubi, cieli nebbiosi e terreni di fango il lettore viene proiettato in un vortice di domande che renderanno impossibile, a lui come alla polizia, distinguere il reale dal soprannaturale. La strega e i delitti sono forse collegati al furto delle reliquie della chiesa? Il santuario con l’affresco di uno spartito insanguinato è davvero il cuore di attività esoteriche e sataniche? E perché tutti credono che la centrale nucleare dismessa emani energie negative?
Di soprannaturale, però, alla fine non ci sarà nulla e il commissario Florence, aiutato anche dall’amico giornalista-attore Mark e da Elisa, anziana pettegola del paese, riuscirà a trovare il modo di far combaciare tutti i tasselli del puzzle, portando alla luce una verità sconvolgente e ben più grande di quanto inizialmente immaginabile. Una verità che affonda le sue radici direttamente nella storia.
“E poi tornarono le lucciole” è un romanzo che ha diversi punti di forza: personaggi ben costruiti e variegati, momenti paurosi che si alternano a sprazzi umoristici, dialoghi brillanti, una storia accattivante che si immerge tra le intriganti leggende di luoghi che sono molto più che una semplice cornice.
Merito, questo, di diversi viaggi dell’autore in visita proprio alla provincia di Vercelli: d’altronde, l’idea del romanzo nasce proprio in quel fazzoletto di terra “in mezzo al nulla e in mezzo a tutto” (cit.) durante una trasferta di lavoro per intervistare una famiglia nobile che oggi ha una rinomata riseria.
In quell’occasione, Gelosa rimane meravigliato davanti all’immensità delle Alpi che si innalzano enormi dalla pianura, ma anche colpito dalla grandezza delle torri della centrale nucleare di Trino, che dominano l’orizzonte opposto.
Questo iniziale contrasto tra meraviglia e orrore permea tutto il libro: i boschi si trasformano in paludi, l’eleganza delle cicogne contrasta con la bruttezza delle nutrie, le risaie sono affascinanti, ma producono nebbie fittissime e fango che continuamente sporca le scarpe dei protagonisti.
Il lettore viene immerso nel caso poliziesco e accompagnato dall’autore ad ascoltare insieme ai protagonisti la leggenda della strega Cativoira e quella del signore delle noci, ad ammirare “l’affresco del Diavolo” o a perdersi tra castelli, sacri monti e forti medievali.
Ma viene anche accompagnato a scoprire sprazzi della vita dello stesso autore. Il romanzo, infatti, è ricco di citazioni a film, canzoni o opere a lui care e vi è inserito persino un vero aneddoto di vita: in auto con amici sui colli di Alessandria, una sera una nube di nebbia improvvisa avvolse tutto, costringendoli a scendere a passo d’uomo da una serie di tornanti.
Quegli amici sono ancora a fianco a Gelosa ed è a loro che è dedicato questo libro, che deve il titolo anche ai suoi numerosi passaggi spensierati e quasi poetici.
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