Dopo 7 anni dall’uscita dello sconvolgente Irrevèrsible, Gaspar Noè tornava nelle sale con quello che può definirsi il suo film più sperimentale. Presentato al Festival di Cannes 2009, in una versione ridotta, Enter the void è un film che vi farà letteralmente viaggiare.
Trama
Oscar (Nathaniel Brown) e Linda (Paz de la Huerta) sono due fratelli da poco ricongiuntisi a Tokyo. Lui fa lo spacciatore, lei la spogliarellista, e sono legati da un’infanzia traumatica. Quando Oscar viene scoperto dalla polizia giapponese come possibile spacciatore inizierà il più grande dei trip.
Recensione
Enter the void non è solo la narrazione di una storia, ma una vera e propria esperienza sensoriale. Come abbiamo già visto in Irréversible, il connubio tra abile uso della regia e dell’impianto acustico, accuratamente selezionato, permette al regista di riprodurre su grande schermo le sensazioni tipiche dello spettro delle emozioni umane. Rabbia, smarrimento, confusione, infatuamento non vengono solo narrate ma riprodotte, andando ben oltre la rottura della quarta parete e permettendo allo spettatore di sperimentare i sentimenti dei protagonisti. Mai come in Enter the void questo aspetto viene enfatizzato. La regia in soggettiva non solo ci permette di immedesimarci in Oscar, ma ci permette di essere Oscar e di vivere insieme a lui l’esperienza dissociativa.
Il regista gioca fin da subito con lo spettatore, suggerendo un parallelismo tra dissociazione dovuta all’assunzione di allucinogeni ed esperienza post mortem: «È strano, l’effetto del DMT dura solo sei minuti ma sembra un’eternità. È la stessa sostanza che rilascia il tuo cervello quando muori. È come se morire fosse il tuo ultimo viaggio».
Ed è esattamente questo il concetto cardine del film e la sua stessa forza. Nonostante lo stesso Noè non creda personalmente nell’esistenza di una vita dopo la morte [1], decide di mettersi in gioco, sperimentando a sua volta un’esperienza metafisica che vada al di là delle sue stesse credenze. Noè punta sul vivere e far vivere un’esperienza dai contorni sfumati, senza mai ben definire di cosa si tratti, lasciando allo spettatore la libertà di vedere nella pellicola ciò che preferisce vedere. Il fatto che Oscar assuma del DMT ci consente, infatti, di avere visioni totalmente contrapposte su ciò che si sta vivendo. È infatti stato dimostrato che questo particolare tipo di sostanza permetta effettivamente di vivere un’esperienza simile a quella della morte [2]. Tuttavia, Noè ci lascia degli indizi su quale sia la sua vera visione. Infatti, la critica al concetto consolatorio che la religione fornisce alle persone, per poter affrontare l’idea della morte, viene introdotta fin dal principio. È proprio Linda a criticare Oscar quando questi le mostra il Bando Tödröl Chenmo – il libro tibetano dei morti. Noè sperimenta così il desiderio collettivo di una vita dopo la morte, sussurrandoci all’orecchio la sua visione personale.
La struttura basale del film ci viene resa manifesta attraverso il discorso di Alex (Cyril Roy) proprio sull’esperienza post morte descritta nel libro. Come un moderno Virgilio, egli ci anticipa quello che andremo a vedere nel corso dell’intera pellicola e come orientarci nel caso ci sentissimo “smarriti”. È infatti il senso di smarrimento a farla da padrone. Il modo di lavorare della mente durante un sogno/esperienza allucinatoria viene trasposto in modo strettamente fedele, rendendo difficile allo spettatore comprendere le connessioni tra le diverse scene. Ed è, quindi, il racconto di Alex a fungere da bussola, nonché l’utilizzo di alcuni espedienti.
Il cartello “enter”, posto di fronte alla casa di Oscar, e l’insegna “the void” del bar dove si incontrerà con Victor, identificano nettamente il periodo di transizione tra assunzione ed effettivo inizio del trip, tipico dello sballo da DMT [3]. Al fine di orientarci all’interno di quest’ultimo, Noè suddivide la pellicola attraverso l’utilizzo di luci stroboscopiche giallo-bianche a tutto schermo, che individuano in modo netto le tre fasi del viaggio anticipateci da Alex. L’utilizzo della luce diventa fondamentale non solo per scandire metricamente il tempo, ma anche per enfatizzare le distorsioni visive date dagli allucinogeni. Le luci al neon, tipiche di una città come Tokyo, si confondono alle visioni di Oscar andando a creare un impianto visivo sconvolgente, in grado di rapire completamente lo spettatore.
Luce e regia assumono, così, una connotazione tanto funzionale quanto narrativa. Il connubio tra le due permette infatti allo spettatore di vivere in modo estremamente verosimile l’esperienza allucinatoria e contemporaneamente di decifrare in modo incontrovertibile ciò che sta vedendo. Se la luce ci permette di scandire la transizione tra i diversi ricordi e le diverse fasi del trip è, invece l’utilizzo di tre diverse modalità di ripresa (soggettiva, semi-soggettiva e aerea) ad indentificare e delineare perfettamente i diversi momenti della narrazione, ed in particolare la differenza tra presente e ricordi.
Sono proprio la visione di questi ultimi a permetterci di conoscere Oscar e quelle che sono le sue più profonde paure. Il terrore di diventare come Bruno (Ed Spear), la gelosia verso Linda, il trauma mai superato della perdita dei genitori e la paura di non essere stato amato dalla madre si fanno sempre più assillanti e paranoidi man mano che avanziamo all’interno del trip, e quindi all’interno della mente di Oscar. In particolare, i traumi infantili dovuti alla perdita dei genitori e la successiva separazione dalla sorellina non hanno fatto altro che scatenare sia un legame morboso con Linda che una ricerca spasmodica di rivivere i momenti e gli atteggiamenti tipici dell’infanzia. Sono, infatti, molteplici sia le scene in cui vediamo i due protagonisti assumere posizioni fetali, sia le scene in cui il seno femminile assume una connotazione più consolatoria che non sessuale, rimandando la mente e la narrazione al momento dell’allattamento.
Il senso di vuoto lasciato dalla perdita dei genitori è quello stesso vuoto esistenziale che provano i nostri due protagonisti, ed è lo stesso void in cui ci tuffiamo, a nostra volta, entrando nei panni di Oscar. L’immaterialità del suo corpo altro non è che il sintomo di una mancata percezione del sé, innescatosi con la perdita della madre, primo specchio attraverso cui il bambino si riflette e si riconosce, riuscendo ad identificare ciò che è e il suo stato esistenziale [4]. Le uniche volte in cui riusciamo a “vedere” Oscar, sono la scena allo specchio e quelle in cui avviene la dissociazione corpo-mente. Specchio ed esperienza dissociativa diventano, così, due facce della stessa medaglia: come lo specchio ci permette di vedere la nostra immagine riflessa e, così, di avere percezione di noi stessi, così l’esperienza extracorporea ci permette, tanto di vedere il nostro corpo, quanto di vedere la nostra vita «come riflessa in uno specchio magico» tramutandosi, di fatto, in un’esperienza conoscitiva.
Così come il DMT diventa, per Oscar, un mezzo per avere un’esperienza quasi ultraterrena, così il cinema è per Noè mezzo sperimentale. Il regista, come Pollicino, lascia briciole qua e là all’interno della pellicola per introdurci alla sua visione della settima arte. Nascondendo le sostanze allucinogene all’interno di custodie di DVD (come farà nel successivo Love, nascondendo l’oppio all’interno di una VHS), ci suggerisce come il cinema possa diventare un mezzo per vivere esperienze extracorporee, cercando di farci rivivere quello che per lui è stato 2001: Odissea nello spazio di Kubrick [5]. Quindi non vi resta che sedervi e godervi questo (bad) trip.
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