Un cubo pericolosamente somigliante alla Scatola di Lemarchand ti invita a un gioco. Risolvi il rebus e apri il cubo: l’Architetto di Hellraiser ti aspetta; è un Gamemaster gentile come i suoi inviti targati R.S.V.P. (Répondez, s’il vous plaît; Rispondete, per favore) e affidabile come la tartaruga nel paradosso di Zenone.
Il regista statunitense Adam Robitel dirige una pellicola la cui produzione arriva in ritardo rispetto al successo commerciale del gioco escape room. Sul medesimo gioco fu distribuito nel 2018 il film No Escape Room di Alex Merkin: tra scelte narrative superficiali e attimi di acume artistico l’opera analizza la parabola discendente, il cambiamento sociale e l’illusione della rigiocabilità di una escape room. L’idea di rinchiudere individui in una stanza con lo scopo di trovare una via di fuga in un determinato periodo di tempo nasce come concetto ludico in cui predomina il divertimento scaturito dalle capacità deduttive e logiche dei partecipanti al gioco; successivamente l’aspetto investigativo è divenuto un interesse di secondo piano a vantaggio del piacere psicologico che emerge dall’atmosfera claustrofobica e dall’orrorifica esperienza di vivere un isolamento forzato da cui evadere.
Questo cambiamento risulta fisiologico perché l’uomo è antropologicamente spinto a una partecipazione di piacere verso spettacoli di natura macabra: l’unico personaggio saggio nel film di A. Merkin sottolinea questo cambiamento definendo e criticando negativamente l’esperienza dell’escape room come un’attrazione simile alla casa degli orrori presente in un parco dei divertimenti.
A. Robitel non continua e non elabora la riflessione di A. Merkin dunque non offre nessuna nuova lettura politica o sociale come da prassi di un film dell’orrore. L’unica aggiunta tematica risiede nella sostituzione dell’aspetto ludico con l’aspetto economico (i personaggi di Escape Room sono spinti a partecipare al gioco dalla promessa di una vincita di diecimila dollari). Questa differenza risulta estremamente fragile perché la sceneggiatura utilizza l’avida esca del denaro soltanto come pretesto narrativo per avviare l’intreccio cinematografico; la medesima variazione è stata analizzata con maggiore intelligenza e ottima critica sociale nel film del 2007 Live! (Ascolti record al primo colpo) di Bill Guttentag: sei individui accettano di partecipare a un reality show basato sul gioco della roulette russa spinti dalla possibilità di vincere 5 milioni di dollari (nella pellicola di B. Guttentag l’aspetto venale non rappresenta unicamente un incipit narratologico ma una chiave di lettura per analizzare la spettacolarizzazione televisiva del dolore e l’avidità commerciale dell’uomo).
La roulette russa ha avuto un proprio sviluppo di riflessione cinematografica; oltre a Live! il tema è stato affrontato come follia bellica in The Deer Hunter (Il cacciatore) di Michael Cimino, come critica al sistema educativo e accademico in Irrational Man di Woody Allen, come satirica visione della fede divina in El Topo di Alejandro Jodorowsky – Escape Room di A. Robitel avrebbe potuto seguire un simile percorso filmico.
Risulta ugualmente poco analizzata anche la scrittura del sistema tecnologico e dell’impianto di videosorveglia che regolano l’escape room descritta nel film: entrambi ricordano la struttura scientifica di The Cabin in the Woods (Quella casa nel bosco) di Drew Goddard – in Escape Room il tema del Grande Fratello tratto dall’opera 1984 di George Orwell è simpaticamente ricordato tramite l’iniziale citazione alla distopia del romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.
Escape Room si presenta – per suddette ragioni – privo di un’approfondita sceneggiatura e figlio di un innesto narrativo tra i film Cube 2: Hypercube di Andrzej Sekuła (Escape Room si sofferma sul passato interconnesso dei personaggi protagonista della vicenda narrata), Stay Alive di William Brent Bell (il film di A. Robitel effettua il passaggio dal mondo dei videogiochi alla realtà dei giochi interattivi) e Saw V di David Hackl, il quinto capitolo della saga cinematografica in cui è fortemente presente il tema della collaborazione come scelta sociale che avrebbe teoricamente permesso alle vittime di superare con maggiore facilità le terribili prove imposte da L’Enigmista (nella pellicola e in un poster pubblicitario di Escape Room è presente un omaggio al gioco enigmatico del puzzle, divenuto icona di Jigsaw).
La sceneggiatura di Bragi F. Schut e Maria Melnik, sebbene sia semplice e stereotipata, mostra una buona attenzione ai dettagli e un buon lavoro in sinergia col comparto della scenografia di Edward Thomas. Durante una lezione accademica di fisica quantistica il personaggio interpretato dall’attrice Taylor Russell prende appunti e al tempo stesso disegna distrattamente spirali sul proprio quaderno; la spirale è la forma mitologica ancestrale che precede l’evoluzione del concetto di labirinto: entrambe le strutture geometriche presentano astrazioni simboliche legate alla ritualità ciclica e al passaggio tra il mondo della vita e il mondo della morte.
Sinonimo linguistico di labirinto è la parola dedalo: la scelta lessicale nasce come omaggio a Dedalo, architetto ideatore del labirinto voluto per ordine di Minosse. Il sovrano cretese è presente nella pellicola come eponimo dell’azienda che organizza l’evento, Minos – Escape Room (Minos è il sostantivo inglese e la traslitterazione greca del nome Minosse). In aggiunta alla creazione del labirinto la figura di Minosse è collegata all’obbligo rituale del Minotauro come sacrificio di sudditanza politica rivolta agli alleati militari di Creta. L’aspetto di onesta intransigenza giuridica del sovrano spinse autori classici (Omero, Virgilio, Claudiano, Dante) a definire Minos un giudice infernale delle anime peccatrici (nel quinto canto dell’inferno dantesco Minòs arrotola la propria coda intorno ai dannati per decretarne la pena): in questa definizione etica e morale di Minosse i personaggi di Escape Room si trovano letteralmente avvolti dalla coda minoica per episodi verificatosi nel loro passato.
La sceneggiatura in apparenza cerca di rende esteticamente profonda la scelta di questi dettagli di trama eppure non riesce a raggiungere una riflessione interiore come accade in Fellini Satyricon di Federico Fellini dove il macabro intrattenimento del labirinto cretese è rivisto in chiave erotica e grottesca.
L’estetica del citazionismo cinematografico risulta contestualizzata sia nei rimandi maggiormente scherzosi (come la pericolosità ludica dei pavimenti in Jumanji di Joe Johnston) sia nei rimandi ironici (mi riferisco alle citazioni a The Human Centipede – First Sequence di Tom Six, ad American Psycho di Mary Harron e alla serie televisiva Xena – Principessa guerriera prodotta da Sam Raimi, regista della trilogia Evil Dead) sia nei rimandi metacinematografici (Hostel: Part II di Eli Roth).
Come precedentemente anticipato la scenografia, aiutata da buoni movimenti di macchina e inquadrature, tenta di innestare una subliminale labirintite allo spettatore in sala: i luoghi sono ripresi con pregevoli inquadrature che donano geometria agli spazi (le scene – a mio avviso – maggiormente ispirate risultano due identiche riprese dall’alto di una strada a partire dal parapetto dell’edificio che ospita l’escape room: i davanzali delle finestre che sporgono da questa visuale appaiono come i muri perimetrali di un freddo labirinto), tramite interessanti capovolgimenti a 360 gradi del campo visivo (in una sala da biliardo i personaggi della pellicola ricoprono la stessa posizione figurativa dei soggetti nel quadro dedalico Relatività di Maurits Cornelis Escher) e per mezzo di un montaggio reso maggiormente frenetico dalle luci e dai colori della fotografia (lo spazio e il tempo dell’ultima stanza dell’escape room presentata nel film sono distorti per effetto del’uso scenografico di texture e stereogrammi presenti in illustrazioni visive – come le illusioni ottiche – e in progetti architettonici – come le Case cubiche di Piet Blom a Rotterdam).
Gradevole risulta il montaggio basato su ellissi temporali che presentano flashback sul passato dei protagonisti della vicenda narrata: un montaggio emotivamente visivo che spezza il cutting on action offrendo allo spettatore in sala un fluido passaggio tra il piano temporale del passato e il piano temporale del presente.