11 luglio 2008, usciva in Italia un remake decisamente diverso dal solito: Funny Games U.S. Infatti, la pellicola del 2007 e quella del 1997 sono dirette dallo stesso regista, il fantastico Michael Haneke.
Trama
Ann e George sono una coppia sposata e sono appena arrivati nella loro casa sul lago per passare delle splendide vacanze estive. Tra un’aria e l’altra non hanno il minimo sospetto che l’orrore stia per raggiungerli, vestito di bianco e dal viso angelico.
Recensione
Funny Games è un remake anomalo. Nessun regista che vuole dare la propria visione della vicenda o che vuole spiegarci come avrebbe rappresentato lui la storia. Il film è infatti diretto dallo stesso Haneke con lo scopo di diffondere la pellicola a un pubblico anglofono il quale, aborrendo il doppiaggio, non aveva avuto facile accesso alla pellicola originaria.
Regia statica e fotografia fredda
Partiamo dall’aspetto più tecnico ma basilare per capire l’ottica in cui va visto il film. La regia è pulita e spesso statica. Non segue un personaggio in particolare, anzi non ne segue nessuno. La visione che abbiamo è quindi esterna alla vicenda. Il regista non vuole far immedesimare lo spettatore, ma sottolinea ciò che è: un semplice spettatore. Questa modalità di ripresa, se da una parte ci mette in una posizione estremamente passiva, dall’altra viene scossa dalla rottura della quarta parete. Paul, infatti, interpretato dal bravissimo Michael Pitt si rivolge più di una volta direttamente a noi, coinvolgendoci ma senza darci la possibilità di effettuare una vera scelta, facendoci domande a cui non possiamo rispondere. Una su tutte:
“E voi su chi scommettete?”
Paul rivolgendosi alla camera
Ci coinvolge in questo turpe gioco, ma come scommettitori a una gara di polli. Non proviamo quello che provano i protagonisti e non dobbiamo farlo. La massima emozione che ci è concessa è la tensione, ma nulla più. Siamo fruitori della violenza in un gioco di perverso voyerismo.
Anche la fotografia alimenta questo senso di straniamento. I colori sono freddi, desaturati, molto diversi da quelli della pellicola originaria. La freddezza dei colori si rivela freddezza nei sentimenti: se da una parte Paul e Peter non provano rimorso per ciò che stiamo facendo, allo stesso modo noi veniamo posti in una posizione di straniamento in cui l’empatia viene bloccata sul nascere.
Il tempo cinematografico e il tempo della vicenda
Haneke ci pone davanti a uno spettacolo macabro di cui ci vuole spettatori scienti. Come già anticipato il desiderio del regista non è che il suo spettatore si immedesimi in uno dei personaggi, ma vuole renderci consci del nostro desiderio voyeristico di violenza. Se attraverso le domande di Paul rende il gioco fintamente interattivo con l’abile utilizzo del tempo cinematografico ci sottolinea come il nostro desiderio sia di vivere istante per istante, momento per momento questa scommessa con la morte. Infatti, tempo scenico e il tempo della trama sono quasi sovrapponibili. La vicenda dura circa dalle 18.00-19.00 del pomeriggio fino alle 8.00 della mattina seguente. Nonostante la vicenda duri circa 12 ore e il film ne duri solamente 2 la gestione registica del tutto è improntata a farci percepire l’intero scorrere del tempo. In due scene questo espediente diventa particolarmente evidente: la scena in cui Naomi Watts, legata, cerca di rialzarsi e quella in cui George Senior cerca di far funzionare il cellulare. Le due scene sono incredibilmente lunghe, a livello cinematografico, e hanno l’unica funzionalità di incrementare la tensione e farci percepire la durata della vicenda. La camera, per l’intera durata di queste scene, è statica. Questa scelta ci pone nella posizione di assistere impotenti (e forse indolenti) a una scena di disperazione che, per certi versi, riesce anche ad annoiarci.
Ann: “Perché non ci uccidete e basta?”
Discorso tra Ann e Paul
Paul: “Lei sta sottovalutando l’importanza dello spettacolo!”.
L’ineluttabilità del desiderio dello spettatore
Questo paragrafo contiene spoiler, se non avete già visto il film vi consiglio di passare direttamente al successivo.
Se il nostro desiderio di sadico voyerismo ci è stato abilmente suggerito per l’intera durata della pellicola è nella scena del telecomando che Haneke ci da la mazzata finale. In quel momento la pellicola prende una piega più razionale. Vediamo, infatti, Ann prendere finalmente in mano la situazione, imbracciare il fucile e sparare. Tuttavia, nel momento in cui la donna sembra reagire, come avrebbe potuto fare in modo meno tragico diversi minuti prima, Paul prende in mano il telecomando e rimanda indietro la pellicola. Torniamo a prima dello sparo e questa volta la vicenda non avrà un lieto fine. Il regista ci mostra come il nostro desiderio sia più quello di assistere alla morte di questi poveri malcapitati che di auspicarne la salvezza. Questo perché la funzione strettamente intrattenente di un film sulla violenza è quello di vedere la violenza. Vogliamo vedere un gioco di cui conosciamo perfettamente regole e finale. Vogliamo vedere personaggi che si comportano in modo assurdo e fin troppo ingenuo. Vogliamo vedere aguzzini facilitati da colpi di fortuna senza eguali e da una posizione di predominio pressoché assoluta sulle proprie vittime. Ma soprattutto vogliamo vedere queste ultime morire. E se qualcosa dovesse andare storto e le vittime dovessero ribellarsi beh, basta solo cliccare sul tasto rewind.
Il gioco del gatto e della mosca
Avete mai visto giocare un gatto con una mosca? Se non vi è mai capitato, sappiate che l’amabile e tenero felino, dotato di morbidi gommini, ha un atteggiamento pregno di sadismo nei confronti della piccola malcapitata. Spesso, infatti, prima di mangiarla si diverte a stordirla, spezzarle le ali, usarla come pallina da rincorrere e solo infine la mangia. Lo stesso gioco messo in atto da Paul e Peter con la sfortunata famiglia in vacanza. La violenza, leitmotiv dell’intera pellicola, è più psicologica di quanto non lo sia visivamente. Spesso, infatti, siamo portati a pensare che le pellicole maggiormente violente siano quelle in cui gli atti sullo schermo sono particolarmente sanguinosi e perversi tralasciando l’aspetto fondamentale della violenza psicologica. Il punto cardine di questa pellicola è proprio quest’ultima e lo capiamo da subito. Partiamo dalla scena delle uova. Seppur in quella scena niente è fisicamente violento, la situazione che viene creata dai due ragazzi lo è, più del colpo inferto con la mazza da golf. L’atteggiamento fintamente cortese di Paul e Peter pone Ann, e successivamente George, in una posizione angusta rendendo impossibile cacciarli di casa. Quest’invasione forzata del proprio territorio è più destabilizzante di quanto non lo sia il colpo inferto al capofamiglia. Assurdamente quel colpo è l’unica cosa che davvero ci saremmo aspettati di vedere.
Le sevizie psicologiche continuano tra indovinelli assurdi e richieste sconsiderate. Una su tutte la scena in cui Paul e Peter scommettono sui “rotolini” di Ann. La richiesta di denudarsi, ma soprattutto la pretesa che a chiederlo sia il marito, è psicologicamente devastante. In quel momento ci aspetteremmo di vedere una violenza carnale che non arriva, e nonostante ciò la violenza subita da Ann è di pari entità. Tuttavia, la violenza psicologica si manifesta in tutta la sua dirompenza quando ci rendiamo conto che Ann è completamente incapace di chiedere aiuto (la scena sul pontile N.d.R.). Peter e Paul sono disarmati, a di là delle mazze da golf che trovano all’interno della casa, la loro unica arma di coercizione è il loro atteggiamento. La spavalderia con cui si impongono dialetticamente e fisicamente sui protagonisti impedisce, ai poveri malcapitati, di ribellarsi anche quando ne hanno evidente possibilità. Nella scena sul pontile Paul è solo e disarmato contro Ann e i suoi amici, eppure la donna riesce solo a formulare un invito a cena come messaggio di aiuto.
Con questo abile gioco di potere il regista ci suggerisce quale sia la vera arma a favore degli aguzzini: la paura delle vittime.
L’assenza di movente
Il senso di straniamento viene amplificato dalla completa assenza di movente. Nel corso del dialogo in salotto, George chiede ai due aguzzini perché stiano compiendo tutto ciò. La risposta di Paul è un altro gioco psicologico. Inizialmente fornisce la versione dei ragazzi con un passato difficile, divisa tra la separazione dei genitori e l’abuso di sostanze stupefacenti, ma subito dopo cambia questa versione dicendo che i due sono semplicemente due ragazzi dell’alta borghesia annoiati dal “vuoto dell’esistenza”. Nessuna della due versioni è vera e questo destabilizza tanto noi quanto i poveri malcapitati. Siamo spesso tentati di giustificare la violenza qualora vi sia una spiegazione logica alla stessa. La verità che ci sbatte in faccia Haneke è che non esiste mai un motivo valido alla violenza. La ricerca di una giustificazione è solo un debole palliativo per permettere alla nostra mente di accettarla. Ma la violenza è tale in quanto tale ed è in grado di autosostentarsi.
Realtà e finzione cinematografica
Il film di Haneke è una pellicola estremamente metacinematografica, sia per quanto riguarda l’analisi della violenza all’interno del cinema che per quanto riguarda il rapporto tra protagonisti e spettatori. È, tuttavia, nella scena finale che possiamo ascoltare la riflessione del regista sul rapporto tra finzione e realtà:
Paul: “Puoi vederlo nei film, giusto?”
Dialogo tra Paul e Peter sulla barca a vela
Peter: “Certo!”
Paul: “Allora è reale tanto quanto la realtà perché lo puoi vedere. Giusto?”
Peter: “St****ate!”
Paul: “Perché?”
Perché la violenza che vediamo sullo schermo dovrebbe essere meno reale di quella che viviamo nella vita quotidiana? Il confine diventa molto labile se pensiamo, ad esempio, alle notizie che ascoltiamo continuamente tramite i mezzi stampa. L’indignazione che ci provocano episodi di violenza nella realtà non ne provocano altrettanta quando la violenza è frutto di finzione cinematografica. Eppure, ciò che vediamo nei film non è formalmente diverso da ciò che vediamo tramite il telegiornale. La violenza cinematografica è violenza in potenza, nel senso più aristotelico del termine, ossia è la possibilità di realizzazione di un atto. E allora la domanda diventa quale delle due tipologie è concettualmente superiore all’altra? La violenza in potenza o la violenza in atto? Oppure, come ci dice suggerisce Paul, sono due facce della stessa medaglia, per cui se possiamo vederlo è anche reale? E in che posizione dovremmo porci rispetto al nostro desiderio di sadico voyerismo?
Le mie considerazioni
Funny Games U.S. è un film che ho apprezzato particolarmente fin dalla primissima visione. Nonostante sia un remake e, per certi versi sia meno potente dell’originale, ho trovato due espedienti particolarmente ben studiati. In primis l’utilizzo della fotografia più fredda rispetto all’originale che ritengo sia più funzionale all’obiettivo della pellicola. In secondo luogo, la scelta di Michael Pitt e Brady Corbet per interpretare Paul e Peter. Infatti, nonostante l’interpretazione di Arno Frish sia iconica, l’aspetto angelico dei due attori americani destabilizza notevolmente lo spettatore, ribaltando le regole, quasi lombrosiane, nella scelta dei “cattivi”. Il mio consiglio è di recuperare entrambe le pellicole cercando di tenere un atteggiamento neutro e di oggettiva curiosità facendovi catturare dai dettagli di entrambe.
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