Il 31 Gennaio 1985 arrivava nelle sale italiane “Ghostbusters – Acchiappafantasmi”, dretto da Ivan Reitman. Il film è una delle pellicole d’intrattenimento più apprezzate degli anni ’80, tanto da essersi guadagnato nel 2015 il diritto di essere conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
TRAMA
New York City. I ricercatori di parapsicologia Peter Venkman, Raymond Stantz e Egon Spengler vengono cacciati dall’università. Decidono pertanto di avviare l’attività di acchiappa-fantasmi, avvalendosi degli avveniristici strumenti ideati da Spengler. Gli affari non ingranano immediatamente ma, grazie al passaparola e a un’efficiente campagna pubblicitaria, il gruppo riesce a ottenere una discreta notorietà. Per venire meglio incontro alle esigenze della metropoli, il team si espande con l’assunzione di Winston Zeddemore.
Le difficoltà non tardano tuttavia ad arrivare nella persona dell’assessore Walter Peck, che ostacola attivamente l’attività degli acchiappa-fantasmi. Come se non bastasse, la divinità sumera Gozer, detto “il Distruggitore”, sta per fare il suo ritorno sulla Terra.
New York sembra essere sull’orlo del baratro. Chi chiameranno?
SAREMO SEMPRE PRONTI A CREDERE IN LORO
Quando si analizza un film, un aspetto rilevante è senza dubbio dato dai fattori oggettivi che rendono quella data pellicola memorabile o assolutamente dimenticabile. Ciò porta spesso a sottovalutare e mettere in disparte la componente soggettiva costituita dal mondo di sensazioni che essa è stata capace di evocarci. E’ infatti in quelle componenti non facilmente esprimibili che spesso si cela la reale ricetta per il successo di un’opera. Qual è pertanto la componente che ha fatto sì che Ghostbusters sia riuscito a fare breccia nel cuore di così tante persone?
Se ci pensiamo, l’idea di un gruppo di acchiappa-fantasmi non è di per sé originalissima. Per citare un precedente illustre, già nel 1936 il fumettista Floyd Gottfredson mise Topolino, Paperino e Pippo nei panni di aspiranti investigatori paranormali con “Topolino e la casa dei fantasmi”, da cui venne tratto un altrettanto celebre corto animato nel 1937. Perfino il termine “Ghost Busters” era già stato utilizzato da una precedente serie televisiva, con conseguenti dispute legali sui diritti in seguito all’uscita del film.
Un merito indubbio del film fu quello di amalgamare la commedia con l’horror. Basti pensare alla scena di apertura, ambientata nella biblioteca di New York e messa in scena secondo i canoni tipici del genere. Peraltro, la fotografia è molto più fredda rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare da una commedia. Il design dei fantasmi andò di pari passo, bilanciando le caratteristiche sinistre con quelle cartoonesche. Non potremmo nemmeno pensare a Ghostbusters senza l’iconica canzone realizzata per il film da Ray Parker Jr.
Ma questi sono fattori di cui si è (giustamente) scritto a più riprese negli ultimi 37 anni.
Allora, qual è l’ingrediente segreto della pellicola di Reitman? Lo sgangherato realismo, figlio di una voglia di sognare. Cerchiamo di capire meglio il significato di questa espressione.
Tipicamente, l’idea del fantasma è associata a fatiscenti magioni gotiche spazzate dal vento in una notte d’autunno. Insomma, all’epoca c’era un’iconografia legata al genere consolidata e apparentemente inscalfibile, che tuttavia risultava legata a un passato in rapido allontanamento. Il film di Reitman prende invece luogo tra le frenetiche vie di Manhattan, in mezzo a grattacieli e sbuffi di vapore. La pellicola arrivò peraltro nelle sale in un periodo di rapido cambiamento tecnologico. Erano gli anni dell’Atari 2600, delle VHS, di MTV. Per certi versi, sembrava che il prefisso “fanta” nel termine “fantascienza” sarebbe divenuto presto obsoleto. Questa fiducia nel progresso arrivò a permeare lo spirito della produzione cinematografica dell’epoca, Ghostbusters compreso. Fu un costante processo di rielaborazione di stilemi consolidati, che diede vita a intramontabili capolavori.
Gli acchiappa-fantasmi si stabiliscono in una stazione dei vigili del fuoco in disuso. Questo fattore racchiude in sé molti più spunti di quanto non possa sembrare. E’ come se l’implicito messaggio fosse “a un vecchio servizio pubblico se ne affianca uno nuovo”. I Ghostbusters di Reitman sono onesti lavoratori “pronti a credere in voi”, pionieri di un mestiere che va a innestare lo straordinario all’interno della vita di tutti i giorni. Il loro mezzo è una vecchia ambulanza modificata, con tanto di sirena, proprio come se svolgessero un servizio di pubblica utilità. Hanno una divisa immediatamente riconoscibile, facente sfoggio di uno stemma (iconico) che ricalca quello di un servizio di disinfestazione. Non combattono le forze del male con strumenti di natura fantastico-esoterica, ma con la scienza di zaino protonico, ghost-traps e sistema di contenimento. Egon Spengler, in una scena, illustra ai colleghi (e agli spettatori) il principio di funzionamento dei già citati strumenti, a rimarcare la pseudo-scientificità del tutto. E, si sa, nel campo scientifico tutto è in divenire, e anche le regole più intoccabili (“mai incrociare i flussi!”) possono essere superate in men che non si dica.“If there’s something strange in your neighborhood, who you gonna call?”
Possiamo fare un parallelismo con un altro cult, pressoché contemporaneo a Ghostbusters, ovvero Ritorno al Futuro. Anche nel film di Zemeckis abbiamo la pseudo-scientificità di una reale automobile che, arricchita con un meccanismo di natura nucleare (proprio come gli zaini protonici), può permettere di viaggiare nel tempo. Si creava fantascienza senza perdere di vista la realtà, perché allora la realtà era la fantascienza. I cambiamenti nella tecnologia di consumo avevano fatto nascere una voglia di sognare e il cinema, in un meccanismo perfetto, non faceva altro che alimentarla. Si mescolò il vecchio col nuovo, senza che il primo risultasse in alcun modo snaturato.
Un ultimo, essenziale, ingrediente è dato dai protagonisti del film. Il team di Venkman, Stantz, Spengler e Zeddemore prese vita grazie a scelte di casting oltremodo azzeccate. Ognuno degli attori principali ricoprì difatti il ruolo che più si accordava alla sua personalità. Basti pensare che Bill Murray, interprete di Peter Venkman, improvvisò moltissime delle proprie battute. Non possiamo prescindere da questo fattore, senza il quale avremmo assistito a un prodotto senza dubbio meno convincente, ma c’è dell’altro.
La caratterizzazione dei personaggi è difatti pressoché perfetta.
– Peter Venkman (Bill Murray) è il membro più sarcastico, cinico e irriverente, ma anche quello dotato delle migliori capacità oratorie.
– Egon Spengler (Harold Ramis) è il membro più intelligente, responsabile della progettazione dell’equipaggiamento del gruppo.
– Raymond “Ray” Stantz (Dan Aykroyd) è il cuore dei Ghostbusters, un uomo di cultura che racchiude dentro di sé un bambino socievole e sognatore.
– Winston Zeddemore (Ernie Hudson), l’ultimo a unirsi al team, è il collante del gruppo. E’ il più obiettivo e avveduto, permettendo agli acchiappa-fantasmi di funzionare al meglio.
Ciascuno compensa i difetti degli altri, nessuno è superfluo. In altre parole, è possibile rilevare come ogni singolo acchiappa-fantasmi rappresenti una differente sfaccettatura della personalità umana. All’interno di chiunque, in misure differenti, convivono un Peter Venkman, un Ray Stantz, un Egon Spengler e un Winston Zeddemore. Far sì che il pubblico possa rispecchiarsi nei personaggi della propria opera è uno dei (complessi) capisaldi di chiunque si cimenti nella scrittura, in qualsiasi ambito. E Dan Aykroyd e Harold Ramis, protagonisti del film e autori della sceneggiatura, ne erano ben consapevoli. Il risultato è che per un fan di Ghostbusters è facile dire quale sia il proprio acchiappafantasmi del cuore, ma impossibile stabilire quale sia il più detestato.