Siamo nel maggio del 2003 quando Takashi Miike torna a deliziarci con un altro dei suoi deliranti, mefistofelici e conturbanti lavori. Non all’altezza del precedente Visitor Q, Gozu resta comunque una chicca da non perdere, soprattutto per gli appassionati del cosiddetto “cinema degli eccessi”.
Trama
Ozaki (Shô Aikawa) e Minami (Yûta Sone) sono entrambi membri di una gang della yakuza. Quando Ozaki inizia a dare segni di evidente squilibrio, e quindi rischia di infangare la reputazione della “famiglia”, il boss incarica Minami di liberarsi dell’amico fraterno. Da questo momento in poi inizierà un viaggio che porterà Minami ad interrogarsi sulla sua natura e anche sul rapporto che ha con Ozaki.
Recensione (senza spoiler)
Dopo due anni dall’uscita del potente e, a mio modesto parere, impareggiabile Visitor Q, Miike torna a far parlare di sé portando sul (piccolo) schermo uno yakuza movie dalle sfumature lynciane. Gozu è, infatti, un viaggio alla ricerca di sé stessi e della propria identità, come può esserlo Mulholland Drive o Strade Perdute.
Il titolo originale della pellicola è 極道恐怖大劇場 牛頭 Gokudō kyōfu dai-gekijō – Gozu letteralmente “Gran teatro della paura della Gokudō (altro nome della yakuza) – Gozu”. Ma di paura legata al tema della mafia giapponese ve ne è ben poca. Quello che, infatti, risulterà essere più disturbante per Minami sarà la scoperta di dove lo condurrà questo viaggio alla ricerca dell’amico. Sì, perché a un certo punto Ozaki sparirà e sarà compito del compare trovarlo (o lasciarlo andare).
Mi perdonerete se vi ho fatto questo piccolo ma, credetemi, veramente irrilevante spoiler. Questo dettaglio mi serve per incuriosirvi su una pellicola che, tramite la perdita, andrà ad indagare non solo l’animo umano e le sue sfaccettature, ma anche il concetto di dovere e obbedienza. E lo fa con lo stile tipico di Miike. La regia, infatti è totalmente pregna degli stilemi del cineasta giapponese che, come sempre, contrappone scene quasi desaturate a flash dai colori sgargianti come quelli di Audition.
“Realtà” (tra molte virgolette) e dimensione onirica si alternano così, sulla scia dei colori, mescolandosi e di nuovo separandosi, lasciando lo spettatore con la sempiterna domanda (quando ci si imbatte in un’opera del regista giapponese): “ma cosa sto guardando?”.
Ovviamente non può mancare la comicità grezza ed esagerata che, come in altre pellicole del maestro, si inserisce nelle scene più grottesche, smorzandole e contemporaneamente esasperandole. Vero marchio di fabbrica di Miike, personalmente è un aspetto che adoro delle sue opere: quella assurda capacità che hanno di farmi scoppiare a ridere nel bel mezzo della tensione. Forse meno potente (ed elaborato) rispetto ad un Visitor Q, Gozu riesce comunque ad essere una piccola chicca da inserire nella watchlist, soprattutto se siete poco impressionabili.
Recensione e analisi (con spoiler)
Come sempre quando si parla di cinema orientale è necessario fare qualche doverosa premessa su quella che è la cultura e/o le usanze del paese in cui è ambientato il film.
A partire dal titolo. Gozu, infatti, è il nome di una divinità giapponese dalla testa di bue che deriva dal sincretismo di diversi culti religiosi presenti sul territorio e, per tale motivo, anche il suo significato risulta fumoso. Secondo alcune fonti egli sarebbe la divinità legata alla pestilenza mentre, secondo altre, sarebbe assimilabile alla figura di Susanoo-no-Mikoto, il dio delle tempeste e degli uragani. In ogni caso pare che il suo temperamento sia, in tutte le narrazioni, fortemente irascibile. Questo ci permette di avere una sorta di chiave di lettura nel momento in cui vediamo apparire a Minami proprio una figura avente il corpo di uomo (in mutande) e la testa di bue che noi, da buoni occidentali, avremmo erroneamente associato alla figura del minotauro. Questo ci suggerisce una probabile riconnessione con la sua parte più istintuale, anche se questa è una mera congettura data la difficile identificazione della divinità e del suo ruolo nella mitologia giapponese.
Impossibile, poi, non notare anche il rimando, più che esplicito, all’allattamento e al seno femminile già visto in Visitor Q. Se, tuttavia, in quest’ultima pellicola è ben chiaro il riferimento alla figura materna e al desiderio di un ritorno alla visione della madre come figura cardine della famiglia, in questo Gozu sembra avere una connotazione più sessuale. La donna che offre i suoi seni a Minami (in modo anche piuttosto insistente) è una donna anziana che, tuttavia, ancora produce latte. Minami ne è schifato e più volte fa capire di trovare l’atto ripugnante. Se, facendo una piccola digressione, ricordiamo quanto in Giappone l’allattamento abbia anche una connotazione fortemente erotica (dimostrato anche dall’apertura di appositi bar in cui è possibile consumare bevande a base di latte umano e/o farsi allattare sul posto), possiamo dedurre che, probabilmente, l’intento di Miike sia quello di disseminare indizi sul vero orientamento sessuale di Minami. Orientamento che verrà svelato alla fine.
L’intero film, infatti, ruota attorno all’omosessualità latente di Minami e al suo percorso di accettazione di sé stesso. L’uomo è segretamente innamorato dell’amico e questo suscita nella sua psiche una doppia frattura: da una parte il dover ammettere di essere attratto da una persona del suo stesso sesso e dall’altra l’idea di doverla consegnare ai suoi assassini. È, anzi, questa la causa della sua angoscia e del percorso che affronta. Come disse un anziano saggio all’interno della saga Game of Thrones “L’amore è la morte del dovere”.
Una volta accettata l’attrazione che prova per l’amico, grazie alla “trasformazione” dello stesso in una bellissima ragazza capirà che l’amore che prova per lui/lei è più forte di qualsiasi senso del dovere verso il boss.
Questo condurrà Minami a salvare Ozaki dal boss (il quale è attratto sessualmente da questa ragazza e cerca di avere un rapporto con lei) e a concedersi, finalmente, di andare a letto con la persona che ama. Una volta iniziato l’atto, inizierà anche il “parto” di Ozaki e la sua rinascita. Dal ventre della bellissima ragazza esce Ozaki e i tre, insieme, inizieranno la loro nuova vita.
Conclusioni
Gozu è un vero e proprio sogno ad occhi aperti. L’impressione è quella di essere addormentati e di vivere, attraverso gli occhi del protagonista Minami, una di quelle esperienze oniriche in cui niente ha senso. La forza di questa pellicola sta proprio nella capacità di riprodurre perfettamente quella sensazione che si ha, quando si sogna, di trovare tutto perfettamente coerente fino a quando un dettaglio non ci suggerisce che qualcosa sia fuori dalla logica. Ed è quello il momento esatto in cui riusciamo a svegliarci. L’idea che la perdita possa innescare anche l’accettazione di sé e della propria natura riesce ad essere, a suo modo, romantica. Un viaggio verso l’Es che molto deve alla filmografia di Lynch, passando da Cronenberg e rubando dettagli a Kafka. Ma senza mai perdere il senso dell’umorismo tipico di Miike, capace di strapparti un sorriso anche nella situazione più assurda.
Leggi anche: