Jeremy Saulnier, il regista di Green Room, è il tipico regista indie senza mezze misure: o lo ami o lo consideri uno scappato di casa. Dopo un paio di corti e un primo lungometraggio passati in sordina, nel 2013 viene acclamato al festival di Cannes con Blue Ruin, un classico revenge movie in cui un protagonista finito ai margini della società decide di inseguire una vendetta personale. Sulla scia del successo di critica e della buona risposta del pubblico (il film chiuse in attivo nonostante la distribuzione poco capillare), due anni dopo dirige Green Room, pellicola in cui trasporta alcune vibrazioni emozionali del precedente, cambiando completamente ambientazioni e scenari ma rimanendo fedele alla sua ossessione di dipingere e dare forma all’aberrazione umana.
Musica e violenza
Dalle sfumature blu del primo si passa alla patina verdastra che sembra cadere giù come una pioggia acida su questa penultima fatica (l’ultima è il bellissimo Hold the dark del 2018) che, oltre a confermarne il talento, lo fa assurgere a quella piccola élite che si muove fuori dai normali circuiti delle major e che non si fa problemi a mostrare l’orrore nella sua nuda e cruda normalità. Il film vede protagonisti i membri di un gruppo punk, gli Ain’t Rights, impegnato in un tour che si sta rivelando un fiasco al punto da costringerli a rubare la benzina necessaria per proseguire il loro viaggio underground.
Pur di intascare qualche dollaro, accettano un ingaggio da un tipo strampalato, che gli organizza un live in un locale sperduto nelle foreste dell’Oregon e frequentato da naziskin e suprematisti bianchi. Dopo un’apertura ironicamente nichilista con il pezzo Nazi Punks Fuck Off , la band riesce a conquistare il pubblico e guadagnarsi un’extra alla fine del concerto. Sfortunatamente per loro, però, quando rientrano per sbaglio nella green room (quelle stanze che nel mondo dello spettacolo fungono da sala di attesa per gli artisti in procinto di esibirsi), trovano il cadavere sanguinante di una ragazza sul pavimento e un armadio dallo sguardo sociopatico immobile a godersi il lavoro appena compiuto.
A quel punto la situazione volge al nero e i proprietari del locale decidono di rinchiuderli sotto minaccia di una pistola, tramutando la commedia in un survival movie. E’ qui che vengono fuori le virtù del regista che, oltre a dirigerlo, il film se lo è anche scritto. In una situazione apparentemente statica, con i buoni deboli e impauriti imprigionati e i cattivi con poco cervello asserviti al volere di un capo (il bravissimo Patrick Steward), che li attendono per farli fuori, le vicende si snodano con la giusta tensione crescente, come fossimo trasportati in un video game in cui, man mano che si procede, si scoprono nuove armi e sale segrete. Il sangue inizia a sgorgare a fiotti, così come non ci vengono risparmiati dettagli cruenti su arti sezionati da coltellacci affilati che penzolano dal gomito o gole squarciate da pit bull killer pronti a scattare al primo richiamo del padrone nazi.
Originalità della violenza
L’originalità del plot di Green Room sta nel modo in cui viene pensata la violenza e la follia scaturita dalla cieca fiducia in un’ideologia malata: chi si aspetta morti scientifiche, cecchini infallibili e reazioni asettiche rimarrà deluso perché, come in Blue Ruin (e in misura minore in Hold the dark), Saulnier costruisce esseri umani semplici, giovani terrorizzati da una situazione troppo più grande di loro che cercano la fuga non sapendo cosa fare o quale decisione prendere, e fallendo miseramente com’è normale che accada quando ci si trova a 20 anni a dover lottare per sopravvivere contro una banda di psicopatici lobotomizzati. Per par condicio, va detto che anche i soldatini di Steward – Darcy si dimostrano tutt’altro che preparati quando dalla semplice esaltazione innocua del loro credo, si trovano a dover agire come glaciali assassini. Il risultato è una mattanza che va avanti per gran parte del film e che riesce, pur nella sua macabra ironia, a risultare credibile, portando lo spettatore a convincersi di come la violenza e la cieca ferocia siano semplici aberrazioni che non hanno nulla di morale, ma che si classificano come distorsioni malate che possono annidarsi nella natura apparentemente pacifica dell’essere umano.
I dialoghi alimentano quel senso di inadeguatezza con cui i protagonisti sentono di dover fare i conti. Tra i più azzeccati del film, va citato senza dubbio il monologo che Pat, il leader della band interpretato dal compianto Anthon Yelchin, snocciola quando la situazione è ormai degenerata e non si aspetta altro che la porta venga buttata giù da due sentinelle armate con fucili da caccia. Nei revenge di Hollywood, il momento del monologo coincide sempre con la presa di coscienza da parte del protagonista, che gli infonde energie misteriose e lo tramuta in una sorta di vendicatore in grado di ribaltare l’esito della battaglia. Al culmine del suo, invece, Pat si limita a ricordare la strategia che lo aveva visto uscire vincitore da una partita di paintball, un gioco di guerra tanto diffuso negli Stati Uniti all’inizio degli anni ’80 in cui, vestiti da militari, si andava a caccia dei nemici armati di fucili caricati con pallottole riempite di vernice. La parte finale del film è forse la meno riuscita anche se l’adrenalina e il pathos continuano a pompare con discreta regolarità. Lascio volutamente la visione e il giudizio agli spettatori, per farlo dovrei spoilerare troppo, ma una nota di merito va a una delle ultimissime scene, quelle con protagonista uno dei cani che si scoprirà, com’è ovvio che sia, dolce e amorevole per natura ma tramutato in una feroce arma letale a causa di un’educazione distorta imposta del padrone; scelta narrativa che sembra voluta dal regista per ricordarci di come il pericolo non venga dalla natura stessa dell’essere umano ma da chi quella natura decide di manipolare per farne uscire la parte più spietata e irrazionale.