Hardware: non si può fermare il progresso!

Prima di parlare di Hardware è indispensabile contestualizzare questo film nel suo periodo d’uscita. Il 1990 fu un anno importante che segnò l’anelito di un futuro sempre più importante. Con l’esperienza ormai radicalizzata degli anni ’80 e la consapevolezza di un’era tecnologica in via di sviluppo, c’era la consapevolezza che queste novità avrebbero  sempre di più caratterizzato le nostre vite.

Da qui l’idea, quasi l’esigenza, di rappresentare in maniera Orwelliana, un futuro spesso distopico, che di traduce, come da penna dei più illustri autori di letteratura sci-fi, in un’immagine di declino, di sfiducia in una vera evoluzione dell’uomo, dove le multinazionali, le ciclopiche aziende ed inevitabilmente le macchine avrebbero non solo dominato ma gestito l’esistenza dell’uomo.

La spontaneità soggettiva dell’uomo moderno viene trasferita sulla macchina – H.Marcuse

Ma arriviamo al vero nettare del discorso: tra gli anni 80/90 troviamo un vero fermento di opere che si avvicendavano ad allertarci in questo apocalittico fenomeno culturale, titoli come Blade Runner, 1997: Fuga da N.Y.Mad Max 2.

fuga da new york

È con Terminator, Robocop e – perché no – anche con la saga cybermovie del mitico Albert Pyun che, attraverso una visione cyberpunk, scopriamo l’automa prendere coscienza di sé, diventare vittima di una realtà sociale senza scrupoli, per poi finire a vendicarsi o – come in questo caso – diventare una macchina killer piuttosto che subordinarsi al servizio del suo padrone.

Il grande ma sfortunatissimo Richard Stanley, di origine sudafricana, allora appena 25enne, ma già con un passato nei videoclip per band come i Fields of Nephilim (il cui frontman sarà scritturato per la parte del nomade che in Hardware trova i pezzi del cyborg), realizza con maestria questo cult di serie b, con un budget ridicolo ma con una professionalità ed un’estetica d’avanguardia. Da sottolineare che siamo molto lontani anche dal budget di un film come Terminator di Cameron, affatto ingente e anche qui dall’esito miracoloso. Richard Stanley avrebbe pianto dalla commozione se avesse avuto almeno la metà di quella somma.

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La trama

In un futuro devastato da una imprecisata guerra e dall’inquinamento radioattivo, un nomade rinviene nel suo peregrinare nel deserto i resti di un robot. Un rigattiere ne compra i pezzi per donarli alla propria compagna, una scultrice. Si scoprirà che i resti appartengono ad un cyborg militare capace di auto-ricostruirsi ma, soprattutto, di essere programmato per uccidere ogni essere vivente!!!

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Hardware è peculiare per una moltitudine di fattori: un’estetica e una fotografia apocalittica che virano sempre sul rosso, con una tendenza alla monocromia. Lo svolgimento narrativo si articola in un primo momento in panoramiche desertiche – dove con pochi elementi e poche parole dettate dallo speaker capiamo tutto quel che ci serve – per poi trasferirsi, per la maggior parte del film, negli ambienti chiusi e sporchi di appartamenti semibui. E’ anche per questo che assume rilevanza il personaggio, mai peraltro visibile, del dj radiofonico (il mitico Iggy pop), che oltre ad inserire musica è un vero “predicatore anarchico” che ci aggiorna sugli eventi di cronaca e di attualità, un un’espediente narrativo fondamentale che veicola tutto il film (tra l’altro una strizzatina d’occhio a chi conosce la saga video ludica di Fallout).

Non mancano situazioni splatter e gore senza fronzoli. Poche ma nei punti giusti, dove ce n’è bisogno. Per fortuna nella versione DVD o Bluray è tutto intatto; all’epoca, quando lo noleggiai in VHS, abbondavano le censure.

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A coadiuvare il tutto, ci pensa una soundtrack da intenditori, che si amalgama perfettamente con l’atmosfera post-apocalittica, dandogli quel tocco fuori dagli schemi che unisce aggressività e melanconia, sfruttando il binomio industrial e wave. Si passa dalla theme iniziale con venature folk del compositore Simon Boswell a guest di rispetto come i Ministry con la devastante “Stigmata” e i PIL con “The order of death”. Da non sottovalutare un’altra guest star, Lemmy Kilmister, nella parte del tassista. Curioso come nella sua autobiografia lui non parlerà bene di questa esperienza cinematografica, muovendo varie contestazioni al regista.

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Non manca nemmeno una fase lisergica e spirituale nella scena finale, dove il protagonista, avvelenato dal cyborg, attraverso un’allucinata fase post-mortem cosciente, entra in comunicazione con la ragazza tramite un percorso psichedelico caratterizzato dal linguaggio della macchina e quello dell’aldilà, per aiutare a salvarla.

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È inevitabile trovare in questo film molte situazioni in cui è evidenziato il basso costo con cui è stato prodotto il film, soprattutto nei movimenti animatronici del cyborg e nella scelta prevalente di utilizzare ambientazioni interne. Eppure, in tutta la sua essenza di film di serie b, Hardware offre una ricchezza che va oltre e che paradossalmente viene quasi esaltata dai suoi limiti tecnici.

Nota: Il nome in codice dell’androide M.a.r.k. 13, si riferisce al Vangelo secondo Marco.