Hatching (sottotitolato in italiano La forma del male) è un film finlandese diretto da Hanna Bergholm e scritto da Ilja Rautsi che mescola diversi elementi e sottogeneri, dal coming of age al body horror.
Il film si apre con immagini idilliache della famiglia della piccola protagonista Tinja (Siiri Solalinna): madre, padre e fratello minore sorridono e si divertono a favore di telecamera. La madre (Sophia Heikkilä), infatti, ha un blog che aggiorna quotidianamente e, nella scena iniziale, sta riprendendo scorci della sua esistenza apparentemente perfetta. Basta però un piccolo imprevisto a far crollare in un attimo questa facciata: un corvo nero entra improvvisamente dalla finestra distruggendo vasi e bicchieri di cristallo, finché la madre non lo cattura e uccide. Tinja si accorge però che il corvo è sopravvissuto e lo raggiunge nel bosco per porre fine alle sue sofferenze. Qui scopre un uovo e, presumendo fosse dell’uccello e sentendosi in colpa per quanto avvenuto, decide di portalo con sé per prendersene cura. Mentre Tinja affronta lo stress quotidiano, causato soprattutto dalla madre che la costringe a praticare la ginnastica artistica e a spingersi oltre i suoi limiti per diventare la migliore, l’uovo cresce gradualmente di dimensioni fino a schiudersi.
Nascondere la polvere sotto il tappeto
Il film colpisce immediatamente per la sua estetica; la luminosità e il candore degli interni della casa tappezzati da un parato floreale rendono l’atmosfera soffocante. È tutto così perfetto da essere terrificante. Anche i costumi contribuiscono a questa sensazione d’angoscia, soprattutto quelli di madre e figlia: Tinja, in particolare, sembra quasi una bambola (a me ha dato l’idea della Wendy del film di Peter Pan del 2003), con i suoi lunghi capelli biondi e abitini bianchi merlettati e fiocchettati. Questa patina di perfezione nasconde, com’è presumibile, una marea di problemi relazionali tra i membri della famiglia. Il padre della protagonista è praticamente un fantoccio senza un margine minimo d’azione, mentre il fratello minore (piccolino ma inquietantemente già uguale al padre, e non solo perché si veste allo stesso modo) è alla costante ricerca dell’amore della madre, odiando le attenzioni (benché tossiche) che questa riserva per Tinja. Dall’altro lato ci sono i personaggi femminili, quelli senza dubbio trainanti: Tinja, che si sta per affacciare all’adolescenza, vorrebbe solo essere accettata e amata per quello che è, ma è costretta a vivere all’ombra della volontà della madre-padrona, colei che gestisce tutto e che dietro abiti e arredi color pastello nasconde un’ipocrisia agghiacciante.
Il vero elemento mostruoso del film è proprio questa estenuante ricerca di perfezione, il bisogno di aderire a canoni irraggiungibili, mentre il lato più oscuro deve essere represso e le brutture “tagliate fuori dall’inquadratura”. Ciò che non ammettiamo dentro noi stessi, ciò che non possiamo ammettere che esista dentro noi stessi, deve essere riversato fuori. Il “parto” con annessa covata rappresenta proprio questa scissione, e l’uovo che cresce a dismisura fino alla schiusa è la metafora perfetta di un senso di angoscia che raggiunge il limite della sopportazione. Il sé è complesso, sfaccettato, e comprende anche lati meno piacevoli che bisogna accettare; la repressione, infatti, fa solo emergere con ancora più prepotenza ciò che cerchiamo di nascondere, che esige di essere visto e affrontato.
Hatching parla di dolore, di crescita, di accettazione, e lo fa attraverso elementi horror spiccatamente cronenberghiani (The Brood) ma strizzando l’occhio a Lanthimos e ponendosi in linea con un “elevated horror” alla Babadook. L’esordio registico di Bergholm è un gioiellino pulito e ordinato che però non rinuncia alle schifezze, come saliva, vomito e un po’ di sangue, insieme alla grottesca figura della creatura che verrà fuori dall’uovo – e che evolverà in qualcos’altro, ma non facciamo spoiler. “L’ho covato io”, una delle battute finali del film pronunciata da Tinja, è la sintesi perfetta della poetica del film, un passo oltre l’accettazione: una vera e propria rivendicazione delle nostre emozioni più scomode e spaventose.
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Guarda anche la nostra intervista alla regista Hanna Bergholm: