Netflix è oramai diventato il punto di riferimento dello streaming mondiale, con un’offerta quantitativa di film e serie tv senza eguali.
Tra produzioni proprie e acquistate, il gigante dell’intrattenimento è riuscito ad accumulare diverse migliaia di pellicole all’interno della propria libreria, entrando nelle case di milioni di persone e allietando questo periodo drammatico con una scelta pressoché illimitata. Il naturale rovescio della medaglia, scelta probabilmente messa in preventivo, è consistito in una blanda selezione qualitativa, facendo sì che accanto a innegabili capolavori come l’ultimo auto prodotto The Irishman di Martin Scorsese, galleggiassero prodotti mediocri, quando non scadenti al limite dell’amatoriale.
Fortunatamente esistono diverse piacevoli eccezioni, una delle quali è rappresentata da “Il buco”, film del 2019 ma solo da poco disponile in streaming, diretto dallo sconosciuto regista spagnolo Galder Gaztelu Urrutia, qui al suo esordio dopo una carriera trascorsa tra TV e pubblicità.
Nella sua raffinata genialità, la trama è stata creata intorno all’unica idea di tramutare in horror la filosofia narcisistica e amorale del capitalismo.
In un futuro forse non troppo lontano è stata costruita una prigione con una struttura architettonica rivoluzionaria: ogni cella quadrata è sovrapposta all’altra in senso verticale, non ha porte di ingresso visibili, ha mura spoglie senza finestre, due letti, un lavandino e un water. Al centro, come fosse un enorme tromba d’ascensore, si apre un buco, da cui viene fatta scendere ogni giorno una piattaforma contenente cibi prelibati e bevande raffinate; i detenuti hanno 2 minuti per mangiare, dopodiché la piattaforma prosegue la sua discesa fino all’ultimo livello, di cui nessuno conosce l’esatto numero. Se si prova a conservare il cibo scatta immediatamente un sofisticato sistema a sensori e la temperatura nella cella inizia a salire vertiginosamente o scendere fino a causare la morte del trasgressore. Inoltre i prigionieri stanziano nella loro cella per un solo mese, dopodiché vengono sedati per risvegliarsi il giorno successivo in un altro livello, ignari sulla logica della scelta. Va da sé che i piani superiori sono i migliori per l’abbondanza di cibo a disposizione, mentre diventano svantaggiati man mano che si scende, dato che i viveri iniziano a scarseggiare e arrivano come rimanenza della brama e della fame di chi li ha preceduti.
Alcuni brevi flashback ci introducono alle fasi precedenti l’incarceramento; veniamo a scoprire che alcuni fanno domanda spontanea per essere accettati all’interno della ‘piattaforma”, con la promessa di ricevere dei benefici tangibili (‘attestati’ come li chiama Goreng, uno dei protagonisti) una volta scontato il periodo di detenzione.
I comportamenti dei detenuti dipendono da vari fattori, come il tempo trascorso all’interno delle celle, i livelli cui si viene assegnati e le predisposizioni personali.
Letta così, la percezione è quella di trovarsi di fronte un discreto prodotto di serie B; gli ambienti sono asettici, la regia minimalista si limita a seguire le vicende quasi in silenzio, la fotografia spara una luce sempre uguale, bianca, neutra, senza ombre. Se si superano i primi minuti, però, ci si accorge dell’enorme spessore etico presente, talmente intriso di significati da rendere questo gioiello uno dei migliori prodotti indipendenti del 2020.
Il regista de Il Buco ha magistralmente dato forma alle storture del capitalismo, mostrandoci come il meccanismo che ne è alla base conduca gioco forza a un individualismo esasperato, e a una brama di potere che ci costringe a rincorrere ferocemente il guadagno e l’accesso privilegiato alle risorse. Il superfluo è sottolineato in maniera grottesca dalle scelte fatte dai detenuti, a cui è permesso portare un oggetto con sé; carrellate quasi involontarie ci mostrano oggetti tanto inutili quanto di chiaro impatto consumistico, tra le quali spicca una tavola da surf poggiata su una parete come fosse una reliquia.
Il colpo di genio di Urrutia sta nel vorticoso sistema simbolico che genera a cascata: alla cucina, posta al piano 0, dove i migliori Chef preparano ogni sorta di prelibatezza, assegna il ruolo di paradiso per i credenti o di stato sociale per i laici e gli atei, che elargisce sostentamento continuo; ai piani inferiori è assegnato il ruolo di chi ne risiede subito sotto, passando per il purgatorio e giungendo negli inferi, dove non esiste possibilità di salvezza. Il sistema lascia ai suoi appartenenti il compito di auto regolarsi e gestire quanto donato; mangiando solo quanto è necessario, infatti, nessuno soffrirebbe la fame e tutti avrebbero di che sfamarsi; è dunque l’egoismo che spinge a ingozzarsi senza dar peso alle conseguenze ‘sociali’ del gesto, riproponendo nel singolo la forza alienante e corruttibile di un mondo che ci spinge a togliere al più sfortunato anche quel poco che gli consentirebbe di vivere dignitosamente.
La storia si chiude con una sequenza che lascia un velo di speranza, pur nell’ombra in cui i due protagonisti si ritrovano a camminare.
Galder Gaztelu Urrutia lancia un messaggio potente, raccontandoci di come un sistema economico basato sulla proprietà privata e sulle diseguaglianze generate dalla divisione in classi sociali, sia riuscito a manipolare le menti fino al paradosso di farci programmare le nostre esistenze sull’accumulo del superfluo e su un individualismo anestetizzante, dove il più debole viene tramutato in una notizia passata dai tg prima della pubblicità e dove l’empatia per gli altri si ferma a una preghiera purificatrice dell’anima.
Un horror distopico che sfocia in una feroce critica politica, un progetto di cui sentivamo l’esigenza in un periodo storico caratterizzato dal trionfo della spersonalizzazione dell’essere umano, una pellicola imperdibile per chi ama farsi domande e non dare solo risposte.