L’orrore di una società consumista, la perversione, la morbosità nei comportamenti dei personaggi e un’ossessione per i dettagli estetici. Questa è la fotografia di In Fabric (2018), un inferno in vetrina. Dalla penna e dalla regia di Peter Strickland (The Duke of Burgundy) emerge una storia malata di una Londra che ospita uno scenario di follia collettiva. E il vestito rosso dà il colpo di grazia. Nel cast Marianne Jean-Baptiste (RoboCop, Edge of Tomorrow), Gwendoline Christie (Il trono di Spade, Mercoledì), Fatma Mohamed (The Field Guide To Evil) e Hayley Squires (Il serpente dell’Essex).
La trama
Londra, anni Novanta. Un grande magazzino di abbigliamento couture presenta la sua nuova collezione in occasione del periodo dei saldi. L’attrazione principale è un vestito rosso, il cui tessuto sembra adattarsi perfettamente al corpo di chi lo indossa. Conquisterà l’attenzione di Sheila, una donna solitaria e divorziata, che decide di acquistarlo. Purtroppo non sa di avere tra le mani un oggetto maledetto portatore di morte.
Premetto che non sono rimasta colpita da questo film, nonostante si collochi in un sottogenere che mi interessa particolarmente. In Fabric cerca di lasciare il segno, ma quello che lascia davvero è solo un’ombra, che svanisce con i titoli di coda. Per quello che ho visto, purtroppo lo colloco in quella categoria di film riusciti a metà. I motivi sono molteplici, e potete scoprirli qui di seguito.
Un film “instagrammabile”…ma non basta
L’attenzione ai dettagli estetici nel film è positiva quando si parla dei titoli di testa ad esempio. Lo spettatore viene trascinato da subito nella storia con una sequenza di foto in stile vintage, che si ripresenta nel corso della pellicola irrompendo in momenti inaspettati. La palette sgargiante tendente al rosso è uno shock visivo, è difficile distrarsi dalla presenza costante di questi colori. Le inquadrature maniacali dei manichini del magazzino, la manicure rossa della commessa del negozio, sono tutti elementi che enfatizzano con insistenza quest’ossessione per l’estetica. Quello che molti definiscono un tributo ai film degli anni Settanta, soprattutto quelli di Argento, lo condivido dal punto di vista visivo. Al contrario, siamo lontani anni luce su tutto il resto.
La storia di Sheila
Fino alla prima metà del film, la struttura narrativa è lineare, coerente, tutto fila liscio. Conosciamo Sheila, la sua vita lavorativa, privata, sentimentale e anche alcuni suoi atteggiamenti malati (spia il proprio figlio mentre fa sesso con la fidanzata). Il personaggio di Sheila emerge come una figura complessa e struggente, interpretata con maestria dall’attrice protagonista. Sheila è una donna di mezza età, divorziata e ha un rapporto teso con il figlio. Questo riflette un senso di solitudine e di incomprensione in lei.
Questa parte di trama ben scritta offre uno sguardo intimo sulla psicologia di Sheila, portando lo spettatore a vivere la sua lotta interiore e la sua vulnerabilità. L’interpretazione dell’attrice riesce a catturare perfettamente l’angoscia e la speranza del personaggio, trasportando gli spettatori in un viaggio emotivo coinvolgente. La presenza scenica di Sheila rimane uno dei punti salienti del film, offrendo una dimensione umana e toccante alla storia complessa e surreale. Per poter risultare un buon prodotto, a mio avviso, In Fabric sarebbe dovuto partire da lei per poi focalizzarsi sui segreti inquietanti del grande magazzino.
Quando il disturbante declassa a grottesco
Passiamo a un altro punto debole di In Fabric: la gestione degli elementi disturbanti e delle sequenze che li rappresentano. Nonostante il film cerchi di creare un’atmosfera surreale e inquietante, in molte occasioni il risultato finale lascia desiderare. Le sequenze disturbanti sembrano essere inserite in modo forzato nella trama, mancando di un‘integrazione organica e significativa. Il montaggio frenetico, invece di aumentare la tensione, risulta spesso confusionario e disorientante, compromettendo l’impatto emotivo delle scene.
Inoltre, la mancanza di coerenza nella gestione di questi elementi rende difficile per lo spettatore immergersi pienamente nell’universo del film. Il tutto si traduce, quindi, in una perdita di efficacia narrativa che contribuisce a indebolire l’esperienza complessiva dello spettatore. Grotteschi risultano essere anche i dialoghi pieni di retorica e frasi fatte e la colonna sonora che risulta quasi fastidiosa.
Conclusioni
Troppa carne al fuoco lasciata bruciare. Con questa frase mi sento di riassumere la mia opinione di In Fabric, un film che ha una parabola ascendente nella prima metà che precipita vertiginosamente nella seconda. Colpisce la recitazione di Marianne Jean-Baptiste che fa trasparire l’amarezza del suo personaggio. Il tocco “aesthetic” anni Novanta non salva il resto composto da sequenze caotiche. Dialoghi, colonna sonora e montaggio fanno acqua da tutte le parti. Un’occasione sprecata che poteva essere invece sfruttata meglio ricostruendo la trama partendo da Sheila.
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