It’s what’s inside è un film del 2024 scritto e diretto da Greg Jardin, al suo primo lungometraggio. Presentato per la prima volta al Sundance Film Festival il 19 gennaio, è stato rilasciato su Netflix il 4 ottobre scorso.

TRAMA

Un gruppo di amici dai tempi del college si ritrova insieme a cena per una rimpatriata prima del matrimonio di uno di loro, Reuben (Devon Terrel). All’evento partecipa anche Forbes (David Thompson), pecora nera del gruppo, di cui nessuno sa più nulla da anni. Il ragazzo porta con se una strana apparecchiatura, prototipo di un gioco che cambierà per sempre l’esistenza di tutti.

FANTASCIENZA, THRILLER O HORROR?

It’s what’s inside è un vero e proprio gioco di scatole cinesi, come nella migliore tradizione della letteratura e cinematografia gialla. Solo che in questo caso le scatole sono corpi umani e la struttura del giallo si presta ad una storia fanta-horror sicuramente originale che si inserisce in maniera sghemba nel filone dell’horror game, sottogenere che sembrerebbe andare molto di moda negli ultimi anni, basti pensare a film come Escape Room o il più recente Talk to Me. L’opera prima di Jardin però non ha nulla a che fare con il genere survivor o con l’horror sovrannaturale, bensì sceglie un approccio sci-fi per dedicarsi ad un orrore psicologico dai toni equivoci tipico delle storie di scambio di corpi. E lo fa con un appeal punk-pop che vira nella comedy più nera. Insomma, non siamo dalle parti della body swamp comedy alla Freaky di Christopher Landon perché i fraintendimenti a cui si assiste durante i 103 minuti di film hanno sempre un risvolto amaro.

Durante It’s what’s inside non si ride mai, al massimo si sorride a denti stretti. E, a dirla tutta, nemmeno ci si spaventa, al massimo si prova una vaga sensazione di disagio nei confronti di personaggi per lo più nevrotici e sempre più irritanti mano a mano che il minutaggio si protrae, a partire dalla coppia protagonista Cyrus/Shelby, con lui (interpretato da James Morosini) che sembrerebbe uscito dal peggior film di Woody Allen e lei (Brittany O’Grady) costantemente a disagio con se stessa e con ciò che la circonda. A tutto questo lo spettatore assiste mantenendo un costante distacco, cercando di seguire il filo dei costanti cambiamenti di identità in uno schizofrenico gioco delle tre carte.

Sembra difficile dare una dimensione, o meglio un’etichetta precisa, a It’s what’s inside. Il lato fantascientifico resta uno spunto narrativo mai realmente approfondito mentre la meccanica del thriller da vita ad un’horror psicologico condito da elementi tratti dalla black comedy degli equivoci. Lo stile giocoso e pop anni ‘90 volutamente acido che ricorda certo cinema indie anglo-americano ha quasi lo scopo di destabilizzare lo spettatore nei costanti cambi di prospettiva, pur tentando di rassicurarlo con un’estetica moderna e familiare tipica dei social.

TRA INTRATTENIMENTO E METACINEMA

Lo scopo principale di It’s what’s inside sembrerebbe quello di intrattenere. Eppure sono evidenti le strizzatine d’occhio a l’elevated horror e intenti metacinematografici. Se da una parte, infatti, tenta di affrontare temi come quello attualissimo della società intossicata dai social o della schizofrenica impossibilità di comunicare, per non parlare del solito sottotesto al pericolo come nuova e potente droga, sicuramente si concentra sul tema dell’identità e di come questa sia fortemente subordinata all’apparenza e alla sua estetica, divenendo anche riflessione (e addirittura metafora) sul cinema e sui suoi personaggi, sulla facilità con cui essi siano interscambiabili nella loro bidimensionalità, vere e proprie etichette affibbiate a pezzi di carne fino all’inevitabile confusione che tutto questo può creare. E il fatto che per certi versi It’s what’s inside sia sovrapponibile a un film come Bodies Bodies Bodies diventa chiaro esempio di come certo cinema vada nella direzione stessa della bidimensionalità che in maniera esplicita il film di Jardin mette alla berlina.

Il problema sta piuttosto nel come It’s what’s inside metta in campo certe riflessioni: nonostante si cerchi di dare una forma visivamente fruibile al gioco di scatole cinesi, queste continuano a confondersi e a confondere contenuto e contenitore. Certo, il cambio di fotografia quando si passa dal fuori al dentro aiuta, ma il montaggio serrato alla video di Tik Tok, il ritmo forsennato scandito da controcampi e split screen, l’utilizzo di colori al neon e uno stile da videoclip (mondo da cui Greg Jardin proviene) non fanno altro che confondere, quasi si tentasse di mascherare la pochezza di uno script che sembra spesso troppo povero di idee narrative. Questo soprattutto nella parte centrale, quella scandita dai due atti intitolati Round one e Round Two fino al primo plot twist che finalmente mette fine ad un’autocompiaciuta carrellata di banali stereotipi alla teen horror, mentre nell’ultimo atto intitolato Coda si tirano finalmente le somme in quello che potrebbe persino essere un apertissimo finale alla Agatha Christie.

UN FILM AMBIZIOSO

Greg Jardin esordisce con un film ambizioso, lui che per anni ha lavorato nell’ambito musicale come regista di videoclip e che ha girato una quantità elevatissima di cortometraggi, non solo in qualità di regista ma anche di sceneggiatore, montatore e direttore della fotografia. Nel caso di It’s what’s inside scrive, dirige e si occupa del montaggio mentre affida la direzione della fotografia a Kevin Fletcher, altro regista proveniente dal mondo dei corti e dei video musicali. Questo spiega l’estetica di un film che evidentemente aspira ad essere una ventata d’aria fresca nel panorama thriller/horror attuale ma che si rivela un’opera acerba e autocompiaciuta, ricca di idee mai davvero originali o spesso semplicemente abbozzate.

Anche guardando al cast di It’s what’s inside non si notano piacevoli sorprese, con una serie di giovani attori che pur portando a casa il compitino non si fanno mai davvero ricordare. Per fortuna l’opera si apre in diversi frangenti a fresca e sincera ironia, tanto estetica (basti pensare ai collage fotografici animati in stop motion dei flashback) quanto narrativa, quella di un gioco in cui il regista/autore sembra voler coinvolgere lo spettatore e attraverso cui sembra davvero che Jardin non abbia voglia di prendersi sul serio. Peccato solo, a mio parere, che il regista non abbia deciso di puntare tutto su quest’ultimo aspetto.

It’s what’s inside si é fatto notare al Sundance ma non ha poi trovato una distribuzione nelle sale, arrivando direttamente su Netflix che non risulta però tra i produttori. Questo non é certo indicativo dal punto di vista qualitativo, ma resto convinto che si tratti di un film che va ad arricchire l’ormai folta schiera di opere “vorrei ma non posso”. Si spera meglio per il futuro

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