Junji Ito: Maniac (Japanese Tales of the Macabre) è una serie anime antologica che traspone 20 storie – suddivise in 12 episodi – tratte dai manga di Junji Ito, come Tomie o Il libro delle maledizioni di Soichi. Cosa accade quando si animano gli incubi del famoso mangaka? L’esperimento non è nuovo: i suoi racconti sono stati già adattati sotto forma di anime nel 2018 in Junji Ito Collection, per non parlare dei live action come la serie di 9 film basata su Tomie o Uzumaki, film del 2000. Questa volta però la serie sbarca su Netflix, presentandosi ad un pubblico più ampio e tentando di popolarizzare le storie del genio di Ito.
Le tematiche spaziano tra bullismo, suicidio e tradimenti, oltre alle vecchie e care maledizioni e storie di spettri. La serie riesce a creare tensione e spesso anche ad inquietare, ma non sempre. Alcuni episodi sono memorabili, da rimanerti attaccati per molto tempo dopo la visione, altri sono invece dimenticabili e meno riusciti, ma è un rischio inevitabile quando si produce una serie antologica. Anche il tratto di Ito si perde e alcuni personaggi non rendono giustizia alla loro controparte cartacea. E sì, mi riferisco proprio a Tomie. La sua bellezza e il suo fascino perdono di impatto nella versione animata, così come la sua cattiveria e il disagio che si prova di fronte alla sua mostruosità. La Tomie di Ito è una donna violentata e martoriata che ritorna e si moltiplica in eterno, il cui corpo ricresce per essere più bello, più ingombrante, più pericoloso e tornare a ridere e schernire. A lei viene dedicato un solo episodio, che non è sufficiente per esplorarne la complessità ma che può avere l’effetto positivo di stimolare la curiosità e spingere a recuperare il manga, qualora non lo si conoscesse.
Al contrario, Soichi, il ragazzino con l’ossessione per i chiodi, sembra perdere meno in termini di caratterizzazione e aspetto (a lui sono dedicati due episodi): la “banalità” della sua pericolosità e follia si ritrovano anche nella versione animata, la quale riesce a lasciare attoniti sia chi guarda, sia i personaggi, adulti e non, che interagiscono con lui e non sanno come gestirlo.
Tra le puntate più riuscite, a mio avviso, quelle che riescono a ricreare quasi lo stesso terrore delle pagine scritte, troviamo sicuramente la terza, ovvero Palloncini appesi. Il segmento si incentra sulla morte di una giovanissima idol, probabilmente suicidatasi per impiccagione. I compagni di classe iniziano a dare la colpa al fidanzato, il quale confessa di aver iniziato ad essere perseguitato dalla testa gigante e fluttuante della sua amata. Da questo incipit già bell’inquietante, la storia degenera (in senso positivo) e le teste fluttuanti diventano decine, centinaia, migliaia, che vanno alla ricerca dei loro corrispettivi umani per impiccarli e trascinarli in giro per aria. Un ritratto drammatico quanto veritiero del dramma del suicidio, una piaga che caratterizza tristemente la frenetica società giapponese.
O, ancora, il secondo segmento della quinta puntata intitolato I lunghi capelli in soffitta, che affronta la tematica delle pene amorose delineando una figura dell’immaginario folkloristico giapponese diventata più nota grazie al suo ampio utilizzo nel cinema horror nipponico: lo spettro rancoroso dai lunghi capelli. Vedere in versione animata delle teste giganti che volano e dei capelli neri infiniti che si diramano nello spazio ha sicuramente un grande impatto, ed è per questo che probabilmente questi due sono gli episodi che più riescono a far accapponare la pelle. Più “realistica”, ma non per questo meno spaventosa, è la seconda parte del decimo episodio, La bulla. Il bullismo è un’altra tematica cara agli autori giapponesi proprio perché così presente e viva nella loro società, al punto da spingere al suicidio chi lo subisce – o alla vendetta spietata.
Segnalo anche il settimo episodio, La città delle lapidi, uno dei pochi a non essere diviso in due diverse storie. La durata – di circa 25 minuti – permette di dipingere meglio la situazione iniziale, in cui due viaggiatori si ritrovano in una cittadina peculiare. Qui, una volta morti, sul luogo della morte spuntano delle lapidi commemorative. Lo scenario rappresentato, con lapidi che si trovano ovunque in giro per il posto, spiazza perché viene meno la separazione tra vivi e morti che noi umani siamo abituati a rispettare. Non c’è un solo luogo dedicato al riposo dei defunti, ma ogni angolo del paese si presta a svolgere il ruolo di cimitero: si può parlare in questo caso di abiezione, la sensazione di terrore individuata da Julia Kristeva che nasce nell’essere umano quando viene meno la divisione netta tra alcune entità e/o concetti, come sé/altro o come, appunto, vita/morte.
In conclusione, Junji Ito: Maniac presenta alcuni episodi degni di nota e ben realizzati, e altri invece quasi abbozzati che risentono anche della scarsa durata (più o meno 10-15 minuti). Il versante tecnico non è eccezionale, ma in alcuni casi funziona a dovere. La visione è consigliata anche se la serie non viene promossa a pieni voti, mentre il recupero delle opere di Junji Ito è d’obbligo se volete trascorrere un po’ di notti insonni.