Joe Wright torna a dirigere un thriller con protagonista femminile, un forte richiamo a La Finestra sul Cortile (1954, Alfred Hitchcock), basato sull’omonimo romanzo di A. J. Finn. Il risultato? La Donna alla Finestra (2021): un film carico di aspettative, che vanta nel cast Amy Adams, Julianne Moore, Gary Oldman, Wyatt Russel e Jennifer Jason Leigh. È la storia del riscatto di una donna, che afflitta dal senso di colpa e imbottita di alcol e psicofarmaci, deve contrastare le illusioni e vincere le debolezze per dimostrare la verità su un presunto omicidio. La Donna alla Finestra è l’esempio di come, talvolta, siano gli attori a reggere il peso di una trama laboriosa, ricca di plot twists, ma con pretesti che possono risultare insufficienti o lacunosi.

Fuori dalla caverna di Platone

La dottoressa Anna Fox (Amy Adams) fatica a fronteggiare i propri demoni. Per superare il trauma che la costringe a barricarsi in casa si rivolge ad uno specialista. Dovrebbe assumere degli psicofarmaci. Ma visioni e deliri continuano. Chiusa nella sua bolla, Anna osserva la vita del quartiere dalla propria finestra: il gruppo di preghiera, il suonatore di tromba, la gente che passeggia… L’unico essere umano con cui ha rapporti diretti, seppur sporadici, è il suo inquilino David (Wyatt Russel).

A sconvolgere l’equilibrio è l’arrivo della famiglia Russel. I nuovi vicini approcciano con la dottoressa. Lo fanno uno ad uno, a cominciare dal problematico adolescente Ethan (Fred Hechingher). Gli incontri rivelano che il loro nucleo familiare sia tutt’altro che perfetto. Anna Fox entra in un vortice di verità non dette, segreti e misteri. Occorrerà tutta la sua coscienziosità per svelare l’arcano connesso ad un crimine. Ma il confine tra realtà e illusione diventa sempre più sottile. Chi è veramente il colpevole? Fin dove è possibile spingersi per fare del bene? Può, la ricerca della verità, smuovere una donna rinchiusa nella caverna di Platone?

Maturazione personale

Il conflitto della protagonista tiene lo spettatore con il fiato sospeso. Riuscirà, Anna, a mettere da parte l’agorafobia se non avrà altra scelta che uscire di casa? Sarà in grado di non lasciarsi sovrastare dal suo tormento? E di mantenersi razionale in situazioni di pericolo? L’arco di trasformazione di Anna Fox, all’inizio, segue una linearità “tipica”. In un primo momento non osa neppure pensare di cambiare la sua esistenza. Pian piano, dopo l’incidente scatenante, alcune situazioni la spingono ad aggirare o mettere da parte i propri limiti.

Nel secondo atto, tuttavia, continua ad altalenare tra uno stato e l’altro, senza una precisa presa di posizione, come c’è da aspettarsi dall’evoluzione di un protagonista simile. La dottoressa è convinta della propria idea: deve dimostrare la colpevolezza dell’assassino. Ma il suo stato mentale continua a peggiorare. Così facendo, fa proseguire la trama principale, ma arresta il percorso di maturazione personale che dovrebbe portare ad un miglioramento di sé, necessario per trionfare sul “cattivo”.

Tra presente e passato

Il risultato è che il punto di crisi – quello in cui tutto sembra perduto – arriva troppo tardi. Inoltre, esso coincide con una rivelazione sul passato di Anna Fox che risulta lapalissiana e assai prevedibile. Alcuni espedienti adottati nel finale – specie quello che risveglia l’ardore della dottoressa – appaiono forzati o improvvisi. Da una donna come Anna ci aspetta che controlli più spesso la galleria del cellulare…

Oltre a ciò, la presa di consapevolezza riguardo al suo passato sposta l’attenzione sulla backstory. E sembra che niente, per lei, abbia più importanza. Quindi viene da chiedersi perché, una volta raggiunta la consapevolezza dell’evento che ha provocato il trauma, la protagonista abbia ancora a cuore la vicenda dell’assassinio. Però la trama principale continua. Ed è qui che si verifica la vera falla, perché tutto potrebbe ancora avere un senso… se solo vi fosse un collegamento.

La donna alla finestra… si sporge troppo?

Qual è il rapporto tra il vissuto traumatico della dottoressa e la questione dell’assassinio? È il senso di impotenza – che fa scaturire quello di colpa – che si prova difronte al sopraggiungere di una morte non voluta. Di conseguenza, Anna Fox è interessata all’omicidio perché, in fondo, vuole riscattarsi. Ma questa è soltanto una scappatoia per giungere ad una consapevolezza più profonda di sé: quello che conta davvero è essere cosciente del trauma. E magari accettarlo. Dopo il punto di crisi, invece, la protagonista continua ad occuparsi del mistero legato all’omicidio. Il peggio è che, dopo la risoluzione, non esiste alcun riferimento al fatto, alle persone o allo stato d’animo che avevano portato Anna a non uscire di casa.

In altre parole: quello che sembrava il pretesto per una maturazione personale profonda diventa una “cosa in sé”, che cambia comunque Anna, ma in un modo che non sembra rispecchiare quello di cui lei aveva davvero bisogno per riprendersi, e cioè qualcosa di strettamente connesso al vissuto traumatico e alle conseguenze che ne derivano.

Tra il percorso di maturazione personale della protagonista e i fatti che portano avanti la trama principale vi è un rapporto giostrato in modo discutibile, scaturito da un’imperfetta disposizione degli eventi (come anticipazioni, ritardi e rivelazioni), tra le due linee narrative.

È facile immaginare che anche gli altri personaggi risentano di ciò. David (Wyatt Russel), si mostra dapprima impacciato per poi cambiare carattere. Accade in un periodo di tempo breve, nel quale non c’è modo – almeno non palese – di comprendere le motivazioni che lo portano ad un tale mutamento dopo aver vissuto con Anna per un tempo non indifferente. Gary Oldman, nel ruolo di Aleister Russel, ha poco spazio e perciò fatica ad emergere. Lo stesso si può dire per Julianne Moore, nei panni di Jane.

Intorno a questi personaggi si sviluppa un alone di mistero crescente, che tuttavia si basa su convinzioni, credenze e pettegolezzi, più che su dati di fatto ed eventi reali. Ethan, invece, è un personaggio costruito con più dovizia. Ma anche la verità sulla sua identità risulta straniante e forzata quando viene fuori; per buona parte del film mancano i semi che avrebbero portato lo spettatore a pensare: “Come ho fatto a non capirlo prima?” In ogni caso, le interpretazioni degli attori sono più che apprezzabili, soprattutto quella di Amy Adams.

Cupo come il tuo stato d’animo: La Donna alla Finestra

Il film si svolge quasi per intero nella casa di Anna. La fotografia è cupa, come se rispecchiasse lo stato d’animo della protagonista. La CGI è utilizzata in modo sapiente nei momenti di delirio e fornisce un punto d’incontro tra il passato traumatico della dottoressa e il presente, cercando di fonderli. In altri momenti, al contrario, come nell’istante dell’assassinio, la presenza di immagini generate al computer appare spiazzante e fuori posto. Le colonne sonore non emergono in modo particolare. E sono presenti attimi di silenzio che possono spiazzare. Non possiamo fare a meno di chiederci come sarebbe stata la colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross (The Social Network), a cui era stato affidato il compito di produrla, ma che infine sono stati congedati. Come già anticipato, il film tratta il tema del senso di colpa. Ma anche quello della perdita e della declinazione. Allo stesso modo della Finestra sul Cortile di Hitchcock, inoltre, non ci si può mai fidare dell’apparenza.

Dopo una gestazione di cinque anni (era il 2016 quando si iniziò a parlare de La Donna alla finestra), aspettarsi di più era d’obbligo. L’aggiunta di nuove scene da parte di Tony Gillroy, forse, ha contribuito a confondere l’atmosfera, rendendo il tutto ancor più artificioso, seppur a quanto si dice l’idea fosse quella di conferire una linearità alla trama.

La Donna alla Finestra era un progetto con un potenziale indiscutibile, che tuttavia non è riuscito a decollare. Il film, per quanto godibile, intrigante e adorno di suspense lascerà un senso di amarezza a tutti coloro che oseranno guardare oltre la superficie.

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La Donna alla Finestra è disponibile alla visione su Netflix.