E se vi dicessi che Saw – L’enigmista, Il fantasma del palcoscenico e Seven hanno tutti un antenato comune direttamente dagli anni settanta ?
La pellicola in questione è del 1971 per la regia di Robert Fuest ed è L’abominevole Dr. Phibes.
Rimasto sfigurato e dato per morto da anni dopo un incidente, il dottor Phibes, noto organista e laureato in teologia, pone in atto la propria vendetta verso l’equipe medica che anni prima aveva invano tentato di salvare la vita di sua moglie Victoria. Per realizzare la sua vendetta, commette gli omicidi ispirandosi alle piaghe d’Egitto descritte nella Bibbia.
Con L’Abominevole Dr. Phibes ci troviamo di fronte a un classico cupo e bizzarro, che tratta il tema della vendetta e dell’amore, in salsa horror, o meglio slasher. Sin dall’incipit il regista Robert Fuest sottolinea subito la componente surreale e umoristica del film, dove il protagonista sale in una grande sala ornata in stile art déco suonando un organo semovente, che per colori e design potrebbe benissimo appartenere a Darth Vader di Star Wars (i toni rossi infatti ricordano l’iconica spada laser e il mantello nero di Phibes ne ricorda l’abbigliamento), per poi attivare la sua personale orchestra meccanica composta da automi musicisti e ballare con la sua attraente e silenziosa assistente Vulnavia.
Il cinema horror e di fantascienza ha da sempre orientato allo spettatore una sorta di tetra diffidenza verso l’organo.
Lo strumento è spesso associato, per motivi religiosi, al trascendente, a una sorta di elevazione umana verso il divino e suona alle orecchie dell’ascoltatore come un’assoluta sentenza e sequenza di cromatismi sonori capaci di ampliare le sensazioni ed emozioni umane. Nel nostro caso la sentenza è di morte e il sentimento di vendetta verso i medici che non hanno fatto il possibile per salvare la moglie.
Phibes appare elegante, cadaverico e colmo d’odio, ma la boria che prova è in contrasto con il fisico, che si muove lento e placido, come se fosse una mummia camuffata da umano. Costretto a celare con una maschera di pelle il volto completamente scarnificato e ad applicare alla base del collo una complicata protesi per nutrirsi e un cavo che collega le corde vocali per parlare, Phibes (Vincent Price) è uno scheletro vivente, un inquietante ibrido tra uomo e macchina che tanto assomiglia al già citato Darth Vader.
Entrambi sono imponenti, entrambi hanno un corpo sfigurato, entrambi ricorrono a un ingegnoso sistema di nutrimento e infine utilizzano un memorabile amplificatore vocale. Da non dimenticare l’uso da parte del dottore (e anche di Anakin) di una maschera sopra cutanea che è il viso dell’attore, cascante e scarno.
Il film è però soprattutto Vincent Price, che recita sopra le righe, attraverso una recitazione tutta basata sul movimento del corpo e degli occhi che tanto carezza la gestualità di un certo cinema muto e del teatro. Il regista attua numerosi primi piani dove gli sguardi eloquenti di Price evidenziano un personaggio distrutto, annientato dal dolore, con un sentimento ben chiaro e totale: la vendetta.
Phibes anticipa in chiave orrorifica la figura del cyborg che si vedrà tanto nella fantascienza successiva donando originalità e freschezza al cinema horror nel periodo di transizione tra gli horror più a stampo gotico e la nuova corrente indipendente di fine anni sessanta inizio anni settanta dei vari Tobe Hooper, George Romero, Carpenter.
Da non dimenticare nemmeno la prova di Joseph Cotten (Quarto Potere, Il terzo Uomo, 2022 i sopravvissuti) che interpreta il dr. Vesalius, capo chirurgo e quindi principale responsabile della morte di Mrs. Phibes. La sua prova attoriale è semplicemente perfetta: tesa, drammatica e a differenza di Price, mai sopra le righe.
Forse la diversa prova attoriale è da attribuire alla diverso carattere e atteggiamento dei due personaggi, dei quali uno è ragionevole e cerca sempre la via della riflessione, del perdono, della parola; mentre l’altro è completamente ossessionato dalla vendetta, è quindi un impulsivo, un romantico.
I toni cupi e angosciosi che caratterizzano il dottore sono bilanciati dai momenti ironici che vedono coinvolti i detective. L’incaricato di risolvere il caso è l’ispettore Trout (Peter Jeffrey), aiutato dal sergente Schenley (Norman Jones) e dal sovrintendente capo Waverley (John Cater). Trout agisce con ingenuità e sono numerosi i momenti ironici, specialmente con il capo del dipartimento, visto che non riesce mai a pronunciarne il nome dell’ispettore.
Ci si trova di fronte a una sceneggiatura a tratti banale e troppo vittima della consequenzialità degli omicidi (le uccisioni che il dottor Phibes adotterà rappresentano le 10 piaghe d’Egitto) ma senza dubbio efficace e capace di tenere lo spettatore incuriosito dalle modalità che il killer adotterà per ogni omicidio. Personaggi divorati da cavallette, congelati in macchina, impalati da unicorni d’ottone, divorati da ratti e poi fatti precipitare con l’aereo, dissanguati dopo aver visto un porno d’epoca, insomma una giostra di atrocità in un parco giochi gelido e lugubre che è la Londra degli anni venti.
Le efferatezze vengono messe in scena con un eccentrico gusto del triviale, risultando originali e innovative. L’uso degli effetti speciali è dinamico e squisitamente analogico: tra le più belle notare la scena delle locuste, terrificanti e sudicie.
Come premesso, il film anticipa alcune dinamiche degli horror thriller moderni. Basti pensare alla trappola finale, dove il dottor Vesalius è costretto a una corsa contro il tempo per salvare il figlio primogenito, creata da Phibes e che è molto simile alle trappole di Jigsaw.
All’uso dei manichini e della voce modificata. Oppure al susseguirsi di omicidi legati dalla componente religiosa e il finale a sorpresa, come in Seven di David Fincher. Per arrivare poi alla componente visiva e di scenografia, molto simile al film di DePalma (Fantasma del Palcoscenico). Si nota anche qui l’uso della voce modificata e l’omaggio a metà film con l’uccisione al ballo in maschera. E poi una fotografia glaciale negli esterni e fatta di colori vibranti e accesi nelle scene in interni che fanno pensare alla pop-art di Refn e Mario Bava. La scenografia moderna e sontuosa, dove è sempre percepibile un non so ché di morte, è algida e lugubre.
Viste le numerose pellicole che hanno preso da questo film, è allora il caso di parlare di plagio?
I registi suddetti hanno sì preso spunto, o rubato per così dire alcuni elementi del film di Robert Fuest, ma sono riusciti a riadattarli in modo diverso dandone un’altra prospettiva e cambiando il registro narrativo. Quindi no, ma è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare e riconoscere come questa pellicola del ’71 abbia ispirato le successive generazioni di registi e come riesca tuttora a intrattenere, far ridere e soprattutto far paura e angoscia a noi, appassionati.