Film d’esordio del regista islandese Valdimar Jóhannsson, di co-produzione islandese, svedese e polacca e distribuito da Wanted Cinema, Lamb è impossibile da catalogare in un solo genere. Tra folk horror, fantasy, dramma familiare e fiaba che trae ispirazione dal folklore nordico così come dalla tragedia greca, questa originale messa in scena colpisce per la sua inaspettata potenza espressiva. Una fotografia maestosa che trasferisce il rigido clima d’ Islanda immergendo chi guarda nell’ atmosfera di questa terra lontana.
Un film particolare, caratterizzato da lunghi silenzi e rari dialoghi, molto essenziali e per questo ancora più realistici. E durante questi silenzi lo spettatore è costretto a cercare di entrare nella mente dei protagonisti, umani e non, per tentare di cogliere i loro pensieri ed interpretare le loro emozioni. Questa peculiare scelta riesce a mettere sullo stesso piano tutti gli esseri viventi, siano essi umani o animali, che popolano la sperduta fattoria islandese nella quale si svolge la storia. Ed il regista è stato davvero bravo a riuscire a dare espressività anche a questi ultimi.
Trama
Islanda. Una fattoria circondata solamente dalla natura è la casa di Maria (Noomi Rapace) e Ingvar (Hilmir Snaer Gudnason), una coppia più indaffarata a badare alle faccende che non a manterene vivo il loro rapporto. Un po’ distaccati e freddi lasciano intuire qualche ombra sul loro passato. Nella notte di natale una invisibile presenza fa visita al loro gregge lasciando loro un dono, un esserino innocente a cui daranno il nome Ada e che accoglieranno in casa come fosse loro figlia. L’ arrivo del fratello di Ingvar scombinerà gli equilibri del nuovo nucleo familiare, ma sarà madre natura, alla fine, ad avere l’ ultima parola.
Il rumore del silenzio
La prima cosa che si coglie di Lamb è che, a differenza della stragrande maggioranza dei film moderni, è silenzioso. Poca musica, rari i dialoghi, e così come dichiarato dal regista in varie interviste, è stata una cosa voluta e ragionata sin dal principio. A parer mio un valore aggiunto per vari motivi. La mancanza di musica nelle panoramiche del paesaggio o nelle riprese della vita di tutti i giorni nei campi o nella stalla, sottolinea la presenza della natura come fattore dominante. Si lascia allo spettatore la libertà di sentire il respiro degli animali, l’ erba che si muove al vento, la pioggia che cade o, per contrasto, il rumore del motore del trattore che spezza la quiete del rurale paesaggio islandese. Ma non solo.
In una storia come questa il silenzio mette sullo stesso piano l’ importanza degli attori umani e degli animali poichè anche degli animali viene mostrato il comportamento. Lo spettatore si troverà a dover entrare nella mente dei protagonisti cercando di capire cosa pensano e non dicono, cosa provano, tentando di capire le loro emozioni. Ed allo stesso modo si troverà a fare con Ada, o con la sua madre naturale. Jóhannsson è stato davvero bravo in questo, nonchè coraggioso ed originale nel sottolineare i sentimenti (passatemi il termine in questo frangente) che anche i coprotagonisti lanuginosi vivono.
Se ogni problema fosse stato enunciato a gran voce dalla coppia avrebbe tolto allo spettatore la possibilità di intuire poco per volta cosa successe nel passato di Maria e Ingvar, e di capire quindi il perchè del loro comportamento attuale. Avrebbe eliminato la possibilità di empatizzare con Ada, persino con la sua madre naturale. E, soprattutto, avrebbe tolto veridicità al loro quotidiano in cui una mancanza di dialogo è più che plausibile anche solamente per il tipo di quotianità vissuta. Insomma, il silenzio è una scelta vincente poichè nel silenzio vien detto più di mille inutili parole ed in mancanza di esso non si avrebbe avuto lo stesso risultato.
Lo spirito della natura.
Se non avete visto il film, vi consiglio di tornare a leggere questa parte dopo avergli dedicato almeno una visione perchè altrimenti potreste viziare la vostra interpretazione con la mia chiave di lettura. Un film come Lamb ne ha davvero parecchie, eppure la più presente a mio parere è la rivincita di Madre Natura. La vita dei due protagonisti sembra essere in simbiosi con la natura nella quale vivono ma, è realmente così? La rispettano?
Varie sfumature nei loro comportamenti ci lasciano capire che la utilizzano semplicemente come un mezzo di sostentamento e null’ altro. Sfruttano i campi, allevano le pecore ma sono interessati all’ incremento del loro numero solo in quanto direttamente proporzionale a quello del loro fatturato. Maneggiano gli agnelli come semplici strumenti, Maria non si fa scrupoli non solo a sottrarre Ada alla madre naturale ma nemmeno ad uccidere quest’ ultima, a sangue freddo, quando reclamava la propria creatura. Non lo fa per bisogno, per cibarsi, o per liberarla da una malattia. Lo fa per egoismo. Per profitto personale.
Ada stessa è il pretesto per riempire un doloroso vuoto e risanare e rinsaldare un rapporto di coppia in crisi. Persino verso gli animali domestici c’ è questo forte distacco. Maria guarda passare il gatto di casa proprio accanto ai suoi piedi ma non lo degna mai di una carezza. Il cane, fedele compagno di Ingvar nel gestire il gregge, non ha nemmeno un vero nome e l’ uomo non lo coccola mai o non vi gioca assieme. Non c’è nessun tipo di affetto per loro. Non si disperano quando non tornano a casa.
Ma si sa, la natura prima o poi chiede il conto. L’ invisibile presenza che visita la fattoria nella notte di natale, il padre di Ada, non è che lo spirito della natura che, alla fine, torna a riprendersi ciò che è suo distruggendo quanto l’uomo ha costruito, se non l’ uomo stesso. Un’ analogia di quanto gli umani usino le risorse del pianeta terra per il proprio guadagno, in modo puramente egoistico, senza preoccuparsi delle conseguenze.
L’inizio nella fine
“Ada è un nuovo inizio“
Queste parole, pronunciate da Maria, sembrano giustificare le sue azioni agli occhi del cognato Pétur (Björn Hlynur Haraldsson). Come se la natura stessa avesse voluto farle un dono, per sopperire alla dolorosa perdita avvenuta tempo fa. Ada è felicità, risponde Ingvar. Quella felicità che avevano perso e che non sono stati in grado di ricostuire da soli, senza l’ intervento esterno, quasi “divino” che ha portato a loro Ada. Questo tema si ripresenta poi al termine della pellicola stessa. Nel tragico ed inaspettato epilogo, dopo le urla ed il pianto di dolore, Maria si alza, si guarda attorno, sospira. Un lungo sospiro di accettazione e rassegnazione. Nel suo sguardo è quasi possibile leggere la consapevolezza di aver raccolto ciò che ha seminato. E’ la natura, e la natura non è sempre buona. E soprattutto chiede il conto, prima o dopo. Maria lo comprende, alla fine. In quel lungo sospiro accetta il suo destino, pronta ad un uovo inizio.