La nascita del rapporto che lega Stephen King al mondo del cinema risale al 1976, quando Brian De Palma porta nelle sale Carrie – Lo sguardo di Satana, trasposizione cinematografica del romanzo horror Carrie, pubblicato due anni prima.

Da quell’esordio sono ormai trascorsi 43 anni ma quel legame, invece di sfilacciarsi o indebolirsi di fronte all’azione usurante del tempo, è cresciuto fino a tramutarsi in una relazione quasi simbiotica.

Tra lungometraggi, corti e miniserie, sono decine le volte in cui un suo racconto è stato adattato per il mondo della celluloide. Va da sé che i risultati non si sono rivelati sempre soddisfacenti: si è passati da capolavori come Shinng, Christine, la macchina infernale e Stand by me, per citarne alcuni, ad altri di qualità inferiore, fino a mediocri trasposizioni basate essenzialmente sulla forza propulsiva del nome stampato sulla locandina ufficiale. Nell’élite di questa ipotetica classifica non può non essere citato Misery, che ha avuto la sua controparte cinematografica nel 1990, rivelatasi una pellicola di valore quasi equivalente.

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Diretta da Rob Reiner, che si era già dilettato con i racconti del maestro dell’orrore dirigendo Stand by me – Ricordi di un’estate, attorniato da un cast stellare (Katy Bates vinse l’Oscar recitando la parte della psicopatica Annie Wilkes), il film riesce a mantenere intatte le atmosfere disturbanti del romanzo, limitandosi a edulcorare pochi episodi eccessivamente cruenti, pur mantenendo intatto un profondo senso di inquietudine per tutti i 107 minuti della sua durata.

La trama si snoda lungo le vicende del famoso scrittore Paul Sheldon (James Caan) che, a seguito di un incidente causato da una tempesta di neve, si risveglia in una casa isolata abitata dall’infermiera Annie Wilkes; la donna, con tono premuroso e imbarazzato, lo mette al corrente di averlo salvato estraendolo mezzo morto dall’auto semidistrutta dall’impatto e gli confida di essere la sua più grande ammiratrice. Alle iniziali cure amorevoli, intervallate da brevi e trascurabili distonie umorali, si sostituiscono ben presto violenze fisiche e psicologiche che fanno emergere la vera indole di Annie, ex serial killer e infermiera psicopatica. Una doppia personalità ricca di sfumature grottesche e violente, che si alterneranno in maniera schizofrenica e trascineranno la sua vittima inerme in un vero e proprio tunnel degli orrori.

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Costretto a riscrivere per intero la bozza del suo ultimo romanzo, in cui la protagonista ed eroina, Misery Chastain, nella mente dell’autore doveva morire per porre fine alla saga, Paul Sheldon vivrà un incubo a occhi aperti, divenendo cavia di una carceriera che arriverà a procurargli nuove fratture alle gambe solo per evitare possibili fughe. Dopo aver ucciso lo sceriffo, ormai vicino a risolvere il caso, Annie, il cui stato mentale è declinato verso un punto di non ritorno, programma un omicidio-suicidio non appena la stesura della nuova bozza sarà terminata; in un finale convulso e una colluttazione di rara violenza, Paul riuscirà a uccidere Annie ma non il ricordo di quella esperienza terribile, le cui immagini rimarranno scolpite nella sua mente per il resto della vita.

La bontà del romanzo (e del film) deriva in gran parte dalla capacità di scavare nel profondo della psiche umana, ricercando con successo quelle devianze latenti in grado di tramutare una persona quieta e gentile in un sadico mostro senza alcun limite o tabù. La mente di Annie è fragile, il suo percorso verso il buio si alimenta di esperienze traumatiche e visioni distorte della realtà, che la portano all’assurdo di ripetere frasi imparate a memoria sui romanzi di Misery per difendersi in tribunale dalle accuse di infanticidio. Un percorso di totale alterazione dell’Io cosciente, in cui la protagonista finisce per immedesimarsi completamente con un personaggio di fantasia, e la cui furia si scatena quando capisce che l’autore ha deciso di porre fine a quel personaggio e, di riflesso, all’unico supporto morale in grado di dare senso alla sua vita.

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Stephen King romanza un disturbo realmente esistente e lo fa usando la sua arte senza lasciare nulla alla fantasia del lettore; se nel film, a esempio, Annie Wilkes frattura le gambe di Paul Sheldon con un grosso martello in una scena cruda e visivamente traumatizzante, nel romanzo arriverà ad amputargli un piede e il pollice di una mano con una sega. Allo stesso modo non avrà scrupoli a fargli bere il risciacquo del secchio usato per ripulire il pavimento dai resti della zuppa versata dal piatto.

Con il personaggio di Misery/Annie, lo scrittore americano crea una storia claustrofobica e angosciante, dove il male ha radici autoctone, dove al soprannaturale si contrappongono le naturali debolezze umane portate agli estremi e dove anche il sorriso tenero di una donna paffuta e gentile può trasmutarsi nel ghigno feroce di un angelo della morte.

Una lettura consigliata per uno dei romanzi più riusciti, un racconto che spaventa e che ci fa capire, in fondo, come il male sia connaturato all’essere umano in quanto tale e non un fenomeno accidentale scatenato da impulsi esterni e circostanziali.

Curiosità: mentre nel film Paul Sheldon finge di assumere gli analgesici per conservarli e tentare di avvelenare il vino di Annie durante una cena, nel romanzo ne diventa dipendente, arrivando a scartare l’idea di usarli contro la sua carceriera per il bisogno quotidiano di assumerli. A questo episodio Stephen King diede, probabilmente, una valenza escatologica, dato che in quel periodo, per sua stessa ammissione postuma, era dedito a un consumo esagerato di alcol e droghe.