Immaginate di essere intrappolati in una prigione senza vie di fuga. Le sbarre sono i vostri sensi: vista, udito, tatto, gusto e olfatto. Essi non vi permettono di uscire, impedendovi così di conoscere realmente ciò che vi circonda. Tale carcere dei sensi, in certe culture, è detto Velo di Maya, ed è l’argomento che tratteremo in questo episodio di Orrore e Filosofia.
L’espressione ‘Velo di Maya’ è stata coniata da Arthur Schopenhauer nel suo Il mondo come volontà e rappresentazione. È un concetto ispirato alla religione e alla cultura induista.
Arthur Schopenhauer nella propria filosofia sostiene che la vita è sogno e che questo sognare sia innato (quindi la nostra unica realtà) e obbedisca a precise regole. Questo velo, di natura metafisica e illusoria, separa gli esseri individuali dalla conoscenza della vera realtà. Così facendo, impedisce loro di ottenere moksha (cioè la liberazione spirituale) e li tiene imprigionati nel saṃsāra, ovvero il continuo ciclo delle morti e delle rinascite.
Analogamente alla metafora della caverna di Platone, l’uomo è presentato come un individuo i cui occhi sono coperti fin dalla nascita da un velo. Quando se ne libererà, la sua anima si risveglierà dal letargo conoscitivo e potrà contemplare finalmente l’essenza della realtà.
Il Velo di Maya – L’origine del termine
Le numerose correnti induiste attribuiscono significati e funzioni differenti al concetto del Velo di Maya. Quella degli Hare Krishna, ad esempio, lo interpreta come il velo che impedisce all’essere individuale di riscoprire la propria relazione con Dio. Nelle scuole moniste come l’Advaita Vedānta, invece, questo velo è rappresentato dall’identificazione con il corpo, con la mente, con l’intelletto e con la propria individualità. È cioè tutto ciò che ricopre e riveste l’Ātman (unica entità eterna ed immortale), impedendo di riconoscere la propria identificazione con esso ed illudendo l’anima individuale di essere un individuo distinto dal tutto.
Māyā ha come significato originario quello di creazione. Deriva dal verbo sanscrito mā nell’accezione di misurare, distribuire, foggiare, ordinare, costruire.
Nei Veda (testi sacri risalenti all’incirca al XX secolo a.C.) con il termine māyā si indica il potere da cui ha origine il mondo materiale. Questo potere è proprio di esseri divini noti come deva e asura, che lo utilizzano per trasformare un’idea in una forma concreta.
Il termine māyā compare soprattutto nel Ṛgveda, cioé la più antica raccolta di inni contenuti nei Veda. In tal caso, si parla di Varuṇa. Egli è un dio garante dell’ordine cosmico, che misura e distribuisce la terra ordinando il mondo fisico. Varuna si può però identificare con un’altra divinità, nota come Indra. Quest’ultima, usa la māyā per cambiare il proprio aspetto fenomenico: “Con i poteri della propria māyā Indra si presenta in differenti forme”. Tuttavia, tra il IX/VIII secolo a.C. nasce un’altra raccolta di inni, quella delle Upaniṣad. A questo punto, si inizia a credere la realtà fenomenica proceda da una signola realtà assoluta.
Le forme fenomeniche prodotte dall’attività creatrice dei deva, dunque, sono solo illusioni: māyā.
Strofe, offerte, sacrifici, voti, passato, futuro, ciò che dicono i Veda: da ciò il mago crea tutto questo universo e in ciò l’altro è tenuto dai lacci dell’illusione (māyā). Bisogna dunque sapere che l’illusione è la natura e il grande Signore è il mago. Tutto questo mondo è compenetrato di entità che sono particelle di lui.
Il Buddhismo Mahāyāna sostiene la dottrina dello śūnyatā, ovvero della vacuità di proprietà inerente dei fenomeni. In altre parole, nulla esiste di per sé in quanto tutto è transitorio e correlato agli altri fenomeni. Nella tradizione Mahāyāna , il praticante non si limita a liberare se stesso dal samsara (ciclo di morte e rinascita), ma rivolge lo sguardo a tutti gli esseri, comprendendo come in realtà tutti siano afflitti dai condizionamenti dell’esistenza ciclica. Sulla base di ciò, genera l’amore e la compassione universale, che lo portano ad assumersi la responsabilità di liberare tutti dal dolore.