Dal 22 al 24 Aprile arriva per la prima volta nelle sale italiane “Perfect Blue”, opera prima del compianto maestro dell’animazione Satoshi Kon. Una pellicola fondamentale all’interno del thriller/horror nipponico, capace di suscitare angoscia e disagio come pochissime altre sono state capaci di fare.
In questa recensione proviamo ad analizzarne alcuni aspetti fondamentali per capire perché, ancora oggi, la potenza del messaggio di quest’opera non sia minimamente venuta meno.
TRAMA
Tokyo. Mima Krigoe è una famosa idol che lascia il proprio gruppo per intraprendere una carriera come attrice, con conseguente delusione di una rumorosa fetta dei suoi fan. Pian piano, la vita della giovane inizia a seguire una discesa verso un abisso fatto di violenza, manipolazione e assottigliamento dei confini tra realtà e finzione.
Quando un killer inizia a prendere di mira delle persone a lei vicine, alla ragazza sorge un orribile dubbio: che sia stata lei a commettere quei delitti?
RECENSIONE
A 25 anni di distanza dalla sua realizzazione, Perfect Blue è un film che riesce ancora a disturbare. Anzi, forse ci riesce ancora di più: è pressoché inconcepibile quanto quest’opera fosse avanti coi tempi per tematiche.
Per analizzare la pellicola di Kon, possiamo prendere in esame le due nature dell’orrore che essa contiene.
Partiamo dalla prima, quella attinente alle componenti thriller propriamente dette. In tal senso, possiamo considerare Perfect Blue come un perfetto esempio di rilettura in chiave nipponica di un genere che ebbe il suo punto di riferimento nel nostro paese, quello del “giallo movie”. Tra i grandi maestri del genere, quello a cui Kon sembra rifarsi è Dario Argento. Le tematiche artistiche, l’ambiente urbano e la musica elettronica nelle scene di omicidio non possono infatti non riportare alla mente gioielli come “Profondo Rosso” (curiosa, anche se probabilmente non voluta, la dicotomia fra i titoli dei due film) o “Tenebre”. Il colore scarlatto del sangue, poi, si accosta perfettamente alle tonalità espressioniste che lo stesso aveva nelle scene splatter dei “giallos”. Curioso, a tal proposito, è anche il dubbio che Mima solleva in una delle sequenze finali del film, non riuscendo più a distinguere il proprio sangue da quello fittizio di scena.
Allargando la visuale, possiamo poi considerare Perfect Blue anche come uno slasher. Tanto per fare un esempio, la scena in cui Mima riceve una chiamata anonima rimanda ad analoghi passaggi presenti nell’indimenticabile “Black Christmas” di Bob Clark. Nella sequenza finale, abbiamo invece un elemento che riporta alla mente un altro capolavoro del genere, “Halloween” di John Carpenter. Mima, infatti, riesce a scampare alla morte privando il killer della propria parrucca proprio come Laurie fece privando Michael Myers della maschera. La depersonalizzazione, la scomparsa di responsabilità tramite un elemento esterno (maschera, vestito/divisa, trucco facciale) che porti a non essere più sé stessi, è difatti un costrutto indagato a più riprese dalla cosiddetta “psicologia del male” e declinato in maniera ottimale dai killer del cinema slasher. E, a ben vedere, la perdita di sé è proprio il tema portante di questo capolavoro dell’animazione nipponica.
È arrivato il momento di considerare l’altra faccia dell’orrore di Perfect Blue, probabilmente la più devastante. Ciò che veramente spaventa è infatti la constatazione di come quest’opera non abbia avuto alcun bisogno di aggiungere nulla alla realtà.
Nei titoli di testa ci viene da subito presentata la contrapposizione tra ciò che Mima deve essere (un marchio adorato dalle folle) e la solitudine della sua esistenza lontano dai riflettori, in una piccola casa ricoperta di regali dei fan. Unici reali amici sono i pesci che la ragazza tiene in un acquario. Non a caso la loro morte sarà il punto di partenza del crollo nervoso della giovane.
Nasce così con disagio, nello spettatore, la realizzazione della passività con cui Mima debba sottostare a ciò che l’agenzia e il sistema dello spettacolo vogliano da lei. In una scena sentiamo dire letteralmente “non si fanno più soldi con le idol, l’agenzia ha dovuto riciclarla” per riferirsi alla nuova carriera nel campo della recitazione. Ci rendiamo inesorabilmente conto di come Mima sia un oggetto alla mercé di forze contro cui non ha modo di opporsi.
Tremendo è assistere al crollo nervoso poco fa citato, che arriva dopo le riprese di una brutale scena di violenza. Mima piange e ripete di non avere avuto la possibilità di tirarsi indietro. È così che nasce la scissione tra la “Mima marchio” e la fragile ragazza alle prese con le ferite sanguinanti del tritacarne in cui è stata gettata. E come può medicare certi tagli? In silenzio, come testimoniato dalla altrettanto devastante scena in cui la ragazza urla sott’acqua.
Dove finisce l’essere umano e inizia il costrutto? Questo è il quesito che diventerà sempre più martellante di scena in scena. È così che le battute iniziano a sovrapporsi tra persona e personaggio, gli interlocutori cambiano durante la medesima conversazione e le tende di casa diventano le tende del palcoscenico nella transizione fra i due mondi. Mima stessa non riuscirà più a orientarsi. Cosa è vero? Cosa è finzione? Solo il dolore fisico rimane a fare da demarcatore. Mima non riuscirà più nemmeno a ricordare frammenti della propria giornata, arrivando a dubitare di essere responsabile delle violente uccisioni a lei vicine. La frammentazione del sé è richiamata da chiari simbolismi nel corso dell’intera opera, come il riflesso restituito dai frammenti di uno specchio rotto o le molteplici inquadrature del volto della ragazza nei televisori esposti in una vetrina.
Le visioni, sempre più numerose, della sé stessa nelle (passate) vesti di idol possono essere lette in due modi.
Il primo è ovviamente legato all’immagine creata dal blog “Nima’s Room” gestito dall’inquietante stalker che compare più volte nel corso della visione. Il secondo può invece essere visto come la concretizzazione dei sentimenti di autosvalutazione della ragazza, nati dalle aspettative (spesso contraddittorie) di fan e agenzie.
Sono proprio le aspettative, l’idea astratta riguardo a ciò che “la vera Mima” dovrebbe fare a far forte il killer nello svolgere le proprie efferatezze. Un movente perfettamente coerente col crudo realismo del film. Mima non ha avuto una reale scelta nel cambiare la rotta della propria carriera, non è stata libera di rifiutare scene violente o servizi fotografici a luci rosse, eppure tanto è bastato perché una persona a lei vicina (cerchiamo comunque di non fare spoiler) le recriminasse di essersi sporcata e aver rinunciato a sé stessa.
Con una tale densità di temi, l’aspetto prettamente estetico passa in secondo piano, ma resta comunque eccellente. Rilevante ai fini della trama è l’aspetto cromatico. I colori sono spesso spenti, tendenti al marrone o al grigio, i volti risultano completamente in luce soltanto quando colpiti dai neon o i fari del palcoscenico. Unico altro colore a risultare sempre vivo, come accennato in precedenza, è il rosso del sangue.