Le origini di un genere cinematografico
La perenne lotta per “chi ha inventato cosa”, i cui fautori sono per lo più mossi da un irrequieto patriottismo, è qualcosa che da tanti anni caratterizza la nostra civiltà. Tuttavia, se nel tempo è stato possibile attribuire la paternità di determinati oggetti e pratiche, non è affatto facile stabilire chi ha inventato un (sotto)genere cinematografico (ma lo stesso discorso regge benissimo anche quando ci si muove in ambito letterario).
Innanzitutto, bisogna precisare che un genere si “crea” quando si definiscono particolari archetipi, ovvero degli elementi ricorrenti che, da quel momento in poi, cominceranno a caratterizzare un determinato genere. Anzi, è corretto dire che, da quel momento in poi, i film contenenti precisi elementi verranno etichettati con un certo genere. Per comprendere a fondo che cosa sia un archetipo occorre riprendere la filosofia di Carl Gustav Jung che, a tal proposito, introduce il concetto di inconscio collettivo:
Esiste un secondo sistema psichico di natura collettiva, universale e impersonale, che è identico in tutti gli individui. Quest’inconscio collettivo non si sviluppa individualmente, ma è ereditato. Esso consiste di forme preesistenti, gli archetipi, che possono diventare consci solo in un secondo momento e danno una forma determinata a certi contenuti psichici.
Carl Gustav Jung
Comprendere l’archetipo
Marco Greganti, nel suo libro “Slasher. Il genere, gli archetipi e le strutture”, ci aiuta a capire bene cosa siano questi archetipi e quale sia la loro funzione nel cinema, ma, più in generale, in ogni tipo di narrazione:
In diverse culture e religioni, ad esempio, troviamo simboli che si assomigliano, proprio perché sono archetipi e dunque parte dell’inconscio collettivo. […] Altro elemento che ci aiuta a capire che cos’è un archetipo, forse quello più immediato, è la sua ripetitività. Più un’immagine simbolica è presente ed è reiterata nei miti, nelle favole e nei sogni, più ha un valore archetipico forte e radicato. L’Eroe e l’Antagonista sono archetipi non perché qualcuno ci ha detto che deve essere così, ma perché sono presenti in tutte le storie che l’uomo racconto fin dai tempi remoti. […] Tutti gli slasher raccontano la stessa storia, quella storia che porta con sé immagini simboliche di cui l’uomo si nutre da sempre.
Marco Greganti
Tutta questa introduzione è più che necessaria per capire come sia impossibile “creare” un genere: esso è il prodotto di diversi film, di alcuni archetipi, di un flusso continuo che prima si concretizza in pellicola con diverse sfumature, e in un secondo momento viene definito. È ovvio che nessuno si sia mai messo a stabilire le regole di un genere a priori: esse possono essere notate (possono “diventare consce”, per citare Jung) solo a posteriori.
Le origini dello slasher
Per questo motivo, attribuire a Mario Bava e al suo capolavoro “Reazione a catena”, la paternità del genere slasher è un grande azzardo. Sull’origine del genere slasher ci sono diverse teorie. Indubbiamente, per farsi un’idea personale, basta guardare un film come “Venerdì 13”, in cui gli archetipi dello slasher sono tutti presenti, e individuare in quali film questi elementi erano già visibili precedentemente. C’è chi fa risalire l’origine dello slasher a Psycho (1960) o Black Christmas (Un Natale rosso sangue) (1974). Ciò che più conviene fare, è ammettere che tutte queste pellicole siano state necessarie per la realizzazione di tutti gli slasher successivi e che essi siano stati più che importanti in quel flusso (di cui parlavamo prima) che ci ha permesso di definire gli archetipi del genere.
Ma soffermiamoci adesso con più attenzione su Reazione a catena di Mario Bava.
La baia come Crystal Lake: il luogo circoscritto
Reazione a catena, conosciuto anche con il titolo Ecologia del delitto, è un film diretto da Mario Bava (che ne curò anche la fotografia), uscito nel 1971. Oltre ad essere uno dei pochi film di cui il regista si disse “piuttosto soddisfatto”, Reazione a catena è, come abbiamo visto, la pellicola che più ha ispirato gli slasher successivi. È infatti molto probabile che gli autori di Venerdì 13 abbiano ideato il Camp Crystal Lake avendo in testa la baia di Reazione a catena. Un luogo circoscritto è proprio uno degli elementi narrativi tipici del genere slasher: come il Camp Crystal Lake, la baia di Reazione a catena diviene un luogo dal quale non si può uscire e all’interno del quale il (o i) serial killer agisce. Altro elemento, oltre al binomio sesso e morte, è la profonda violenza che la pellicola emana.
La violenza di un’umanità marcia
In questo caso, non si parla solo di violenza negli omicidi – che è riscontrabile nella maggior parte degli slasher – ma di una violenza endemica, caratterizzante ogni essere umano, ogni personaggio del film. Mario Bava mette in scena un’umanità marcia, egoista e profondamente cinica, in un meccanismo, una reazione a catena appunto, in cui la violenza mette in moto altra violenza. All’interno di Reazione a catena troviamo, infatti, tredici omicidi, in un continuo scambio di ruoli e in una perenne alternanza tra vittime e carnefici. Mario Bava inserisce i personaggi in un quadro di totale decadenza morale, in cui esseri deplorevoli uccidono altri esseri deplorevoli. L’umanità marcia di Reazione a catena è un’umanità regredita allo stato di natura, un susseguirsi di figure grandguignolesche nelle quali l’eccesso pulsionale gehleniano disintegra la ragione.
Ed è per questo motivo che, alla fine, a nessuno importa veramente chi sia il colpevole: Bava si allontana dal Giallo all’italiana, genere che aveva contraddistinto le sue produzioni precedenti, e mette in mostra uno spettacolo di pura violenza, il cui la trama perde importanza e significato; non c’è un colpevole, perché tutti i personaggi lo sono allo stesso modo e non possono fare altro che annientarsi a vicenda come animali. In questa prospettiva, la figura dell’entomologo Paolo Fossati, criticato perché “cattura insetti innocenti”, non è inserita casualmente: in Reazione a catena gli esseri umani diventano semplici insetti che “si schiacciano” l’un l’altro, in un mondo dominato esclusivamente dalle pulsioni.
Sesso – morte: la scena ripresa in “L’assassino ti siede accanto”
Tornando all’onnipresente binomio sesso – morte, chiunque potrà notare come la morte dei due ragazzi che stanno avendo un rapporto sessuale sia ripresa senza nessuna variazione (forse qui più che di omaggio si potrebbe parlare proprio di plagio) nel secondo capitolo di Venerdì 13 “L’assassino ti siede accanto”.
Un finale simbolico: la vittoria della violenza
Altra caratteristica di Reazione a catena, che poi ritroveremo in molti slasher, è il fatto che chi uccide lo fa con freddezza e indifferenza: i brutali omicidi che vediamo nel film di Bava ricordano quelli della saga di Halloween o di quella di Venerdì 13. Essi sono caratterizzati da una disumana indifferenza che trasforma le vittime in carne da macello. Ad essere spiazzante è anche il finale: l’ultimo atto di estrema violenza è compiuto dai due bambini che uccidono con colpi di fucile i loro genitori. Questa cruda conclusione mostra come ormai il mondo sia stato contaminato dalla violenza, la quale è riuscita a corrompere persino l’innocenza infantile, distruggendola totalmente. La reazione a catena, appunto, è ormai iniziata: una volta piantato il seme della violenza (con il primo omicidio) non si potrà fare altro che coglierne i suoi sanguinosi frutti.
In conclusione, come abbiamo visto, non è possibile “creare” un genere cinematografico. Tuttavia, con il suo “Reazione a catena”, Mario Bava ha creato una pietra miliare del genere slasher, costruendo delle fondamenta sulle quali è stato congegnato tutto ciò che è venuto dopo.