Nella sezione Orizzonti (inspiegabilmente non nel concorso ufficiale) della 80ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia, abbiamo assistito all’anteprima di Hokage – Shadow of Fire. Un ulteriore capitolo nella straordinaria carriera di Shinya Tsukamoto, uno dei registi più significativi del cinema giapponese degli ultimi decenni.
Di seguito trovate anche la nostra intervista a Tsukamoto sul canale YouTube:
È quasi paradossale dover ancora introdurre un regista del calibro di Shinya Tsukamoto, noto e acclamato in tutto il mondo e non solo per capolavori come Tetsuo (1989) e Tokyo Fist (1995), e film horror fra i migliori del 21° secolo come Haze (2005) e Nightmare Detective (2006). Il regista aveva già partecipato al concorso della Mostra con Fires on the Plain (Nobi, 2014) e Killing (Zan, 2018). Negli ultimi anni ha messo da parte l’alienazione nel contesto urbano per affrontare il conflitto nel senso più ampio del termine. Shadow of Fire si inserisce in una sorta di trilogia insieme ai due precedenti film, concentrandosi sul tema della guerra e delle sue conseguenze, sia fisiche, mentali che sociali, con una poetica sempre più nitida. Tokyo Fist resta probabilmente la sua opera più complessa e personale, dove la disumanizzazione esplode nella violenza estrema, ma il regista oggi sembra più interessato a esplorare un lato più umano e spirituale dei suoi protagonisti.
In questi giorni è stato anche proiettato nella rassegna Le Vie del Cinema a Milano, e martedì 26 settembre sarà proiettati a Roma allo storico Cinema Quattro Fontane, che è sempre una garanzia per programmazione in lingua originale e qualità.
Nonostante la sua breve durata, come molte altre opere del regista, Shadow of Fire dimostra quanto il cinema di Tsukamoto abbia raggiunto un livello di essenzialità e chiarezza sorprendenti. La follia cyberpunk di Tetsuo si è ormai tramutata nell’orrore di un’umanità dilaniata nel passato e nel presente, il corpo ha ceduto il passo alle angosce mentali e a una follia che sembra travalicare le generazioni. In questo ultimo lavoro emerge anche uno sguardo più compassionevole per quanto riguarda il percorso del bambino, così da rendere la condizione di “fantasma” o “ombra” meno irreversibile.
I tre protagonisti sono individui frantumati che cercano di adattarsi alla vita nel Giappone del dopoguerra. La storia ruota attorno a una piccola locanda dove troviamo la protagonista (Shuri) della prima parte del film, che per sopravvivere si prostituisce. La locanda diventa poi rifugio per un bambino orfano (Ouga Tsukao) e un soldato reduce dalla guerra, formando una sorta di legame familiare per alleviare il dolore e riassaporare quei momenti passati che sembrano ormai un’utopia. Il regista stesso, presentando il film a Venezia, lo ha descritto come una preghiera, un grido di rabbia verso una divinità indifferente.
Trailer internazionale:
“Mentre il mondo fa un passo indietro dalla pace, ho sentito il dovere di realizzare questo film, come una preghiera.” Tsukamoto ha aggiunto che ha ritrovato i temi esplorati nei suoi ultimi due film, “Fires On The Plain” (2014) e “Killing” (2018), entrambi riflettendo sugli effetti duraturi della guerra.
Tsukamoto realizza la prima parte di Shadow of fire in un’unica location, i personaggi entrano ed escono dalla locanda ma la mdp resta sempre all’interno. Questo piccolo locale angusto riesce allo stesso tempo a destabilizzare e ad affascinare in quanto sembra una sorta di Limbo che i personaggi sfruttano come rifugio dall’inferno che sta al di fuori. La locanda quindi diventa un luogo misterioso e spettrale.
La speranza di una nuova vita e una famiglia costruita pezzo per pezzo si rivelano illusorie in un mondo di incubi che si manifestano sia di giorno che di notte. Il bambino, a causa di una serie di sfortune, si ritrova di nuovo per la strada, affidandosi poi a un venditore ambulante in un viaggio misterioso. Dopo un primo atto visivamente potente il regista decide di seguire questo piccolo orfano per mostrare un panorama più ampio degli orrori della guerra. Ma è proprio la scelta di abbandonare la location iniziale che rende il primo atto ancora più potente e vivido, senza cedere al vezzo stilistico di fare un film interamente in un’unica location.
A differenza di Fires on the Plain (Nobi), “Shadow of Fire” lascia la guerra nel fuori campo, diventa un incubo ossessivo che tormenta le loro vite, in una visione ancora più cupa. Le cicatrici della guerra sono ancora aperte e lontane dall’essersi rimarginate. La separazione, la crescente follia e il desiderio nichilista di affrontare un passato di atrocità insopprimibili rischiano di cancellare la flebile speranza che il piccolo protagonista aveva trovato. L’ombra evocata nel titolo si fa sentire come un lutto costante che grava sulle esistenze dei tre protagonisti. La guerra con le sue cicatrici psicologiche continua a tormentare i personaggi fino a spingerli alla follia. Solo in una singola sequenza onirica vediamo un’immagine del fuoco che si abbatte su una città ormai spettrale, trasformata in un paesaggio post-apocalittico, abitato da fantasmi ancorati ai dolorosi ricordi delle loro vite passate. Tre di questi fantasmi si trovano per un breve momento, illudendosi di poter ancora sentirsi come in una famiglia.
Tsukamoto ha sempre esplorato l’interno e l’esterno dei corpi, superando i confini di una struttura che impone una definizione rigida dell’esistenza e della realtà. In Shadow of fire, il cuore dicotomico della poetica di Tsukamoto – che esplora l’organico e il meccanico, il maschile e il femminile, la repulsione e il desiderio – si traduce in una complessa rete di significati, decentralizzando la narrazione attraverso interconnessioni costanti tra elementi in primo piano e sfondi. La donna che abita la locanda – un luogo marginale, regressivo e chiuso – si nega agli sguardi esterni (non la vediamo mai affacciarsi alla finestra o alla porta), si prostituisce in modo passivo per alleggerire il peso insostenibile del dolore causato dalla perdita del marito e del figlio durante i bombardamenti.
Come in altre opere del regista, l’utilizzo delle dissolvenze va a delineare il graduale emergere e svanire dei personaggi, così come le sovrapposizioni di emozioni e paranoia. Lo spettro della malattia radioattiva che si espande dal volto ormai oscurato della donna fino e la città ridotta in cenere, una panoramica immobile di una realtà statica e irreversibile. I primi piani della ragazza e del bambino sono immagini che difficilmente si possono dimenticare, e non serve molto altro quando si riesce a catturare questo dolore dagli occhi dei protagonisti. Rimangono i fantasmi pronti a essere dimenticati.
Un film necessario che sicuramente non troverà il pubblico ampio che si merita – a differenza del kolossal americano Oppenheimer – ma ormai non c’è più da sorprendersi di queste dinamiche. Shadow of Fire è un incubo da cui non ci si può sottrarre e che scuote profondamente lo spettatore senza il bisogno di una trama avvincente.
Un horror assolutamente da recuperare dove Tsukamoto è attore protagonista —> Marebito (2004) – L’inquietante horror giapponese di Takashi Shimizu