Shutter è un film tailandese del 2004 scritto e diretto da Banjong Pisanthanakun e Parkpoom Wongpoom, registi anche di Alone (2007) – in pratica due persone che hanno il merito di aver creato i due film di genere tailandesi più conosciuti e che sanno bene come spaventare. Negli anni 2000 (ma anche fine anni ’90), assistiamo a un boom di horror asiatici che puntavano sullo spavento e che prendevano ispirazione soprattutto da racconti e leggende popolari. Se il primato va sicuramente attribuito al Giappone (con i vari Ju-On e Ringu, che hanno avuto anche i loro remake statunitensi), Shutter si difende dignitosamente e inquieta abbastanza al punto da essermi rimasto impresso per anni, soprattutto per la scena finale. E non è da sottovalutare neppure la sua popolarità: fu un successo al botteghino ed è stato oggetto di ben tre remake, uno statunitense e due indiani, uno in hindi e uno in tamil.
La trama è semplice ma non così tanto scontata. Tun e Jane sono una coppia che, di ritorno da una festa, investono una giovane donna. Su insistenza di Tun, che vieta alla fidanzata di chiamare i soccorsi, i due fuggono, lasciando la povera sventurata lì sull’asfalto. Da quell’evento Tun, che fa il fotografo, comincia a notare inquietanti ombre sulle sue fotografie e a soffrire di uno strano dolore al collo. Anche se in un primo momento scarta l’ipotesi di qualcosa di sovrannaturale, le stranezze si susseguono al punto che il giovane dovrà ammettere di trovarsi di fronte ad una vera e propria infestazione. Scoprirà che a tormentarlo è lo spirito di una donna del suo passato, Natre.
Quando lo vidi la prima volta (ma anche la seconda e la terza), il film mi spaventò molto. Quando l’ho riguardato per scrivere questo articolo, l’ho trovato ancora spaventoso, ma per motivi diversi: il fantasma di per sé mi fa sempre paura e i jumpscares di cui il film è disseminato mi fanno ancora saltare, ma c’è qualcos’altro che oggi mi fa rabbrividire di questo film. Shutter è una ghost story creata principalmente per cavalcare l’onda di quel cinema, soprattutto J-horror, fatto di spettri dalla pelle bianchissima e dai capelli lunghi, e su questo non ci piove. Ma nel mentre, racconta una storia di violenza e vendetta che, a guardarla in questo particolare periodo storico, mi fa venire voglia di correre ad abbracciare quel fantasma che mi aveva causato tanti incubi da bambina. Natre era una ragazza molto timida, senza amici, di cui Tun aveva tanta pietà al punto da fidanzarcisi. Mentre lei se ne innamora perdutamente e gli si aggrappa (letteralmente, se conoscete il finale) disperatamente per ricevere amore, lui non ne è innamorato ma anzi se ne vergogna, al punto da tenere nascosta la loro relazione. Quando prova a lasciarla, Natre tenta ripetutamente il suicidio, cosa che porta un disperato Tun a chiedere aiuto ai suoi amici.
Ed è qui che entra in gioco la paura vera, perché gli amici di Tun decidono di “sistemare la cosa” violentando Natre. Tun li coglie in flagrante ma, invece di aiutare la ragazza, le scatta delle foto; Natre infesta le fotografie di Tun proprio perché è in una fotografia che la sua anima era stata “catturata”. Quando Jane scopre i negativi delle foto e Tun è costretto a confessarle ciò che aveva fatto, è ormai chiaro che il ragazzo non è assolutamente il protagonista-eroe, bensì il mostro; e che il fantasma non solo voleva che lui facesse i conti con la sua colpa, ma anche avvisare Jane circa la natura dell’uomo che aveva accanto. La cosa terribile, oltre al potere del branco e al fatto che anche l’apparentemente “bravo ragazzo” può essere orribile, è proprio la questione della fotografia non come prova del crimine, bensì come strumento per zittire la vittima.
La narrazione è controllata da chi detiene lo sguardo e da chi ha voce per raccontare quanto è successo. Tun e – inconsapevolmente – Jane filtrano il racconto, perché sono sempre loro dietro la macchina fotografica, sono loro che guardano, indagano e raccontano, mentre Natre è uno spettro muto o, meglio, reso muto. Ma si sa che i fantasmi sono la metafora di un passato ancora aperto e che incarano l’oppresso che non rinuncia a tentare di raccontare. Natre riesce infatti a riappropriarsi di quello sguardo utilizzando proprio le fotografie, con cui il branco aveva ricattato lei, per mettere in scena la propria vendetta. Se gli altri violentatori trovano il finale che meritano, a Tun spetta qualcosa di peggio della morte: continuare a vivere con la consapevolezza di ciò che ha fatto, ormai impossibilitato a ignorare il peso di quella colpa.
Dopo 18 anni, Shutter ha ancora un bell’impatto sullo spettatore. Non è un film perfetto, ma nel suo piccolo è riuscito a entrare e rimanere nell’immaginario dei patiti dell’horror. Se volete riguardarlo, o guardarlo per la prima volta, il film è disponibile su Prime Video!
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