Starry Eyes è un film del 2014 scritto e diretto da Kevin Kölsch e Dennis Widmyer, coppia che sarebbe diventata nota più tardi per il remake di Pet Sematary (2019). Il film ruota attorno alla vita di un’aspirante attrice che si scontra con la realtà hollywoodiana e, data la premessa, sembrerebbe anticipare di qualche anno la denuncia dei soprusi ai danni delle donne nel mondo dello spettacolo che sarebbe esplosa con il cosiddetto movimento Me Too. Non è proprio così come sembra, perché Starry Eyes nasce da un intento diverso.

Trama

Sarah (Alexandra Essoe) è una giovane aspirante attrice come tante altre che lavora in un fast-food per mantenersi. La sua occasione finalmente sembra arrivare quando decide di recarsi al provino per un nuovo film horror intitolato L’urlo d’argento, prodotto dalla grande casa produttrice Atraeus Pictures. Il provino però non va nel migliore dei modi e Sarah ha un crollo emotivo nel bagno, durante il quale urla e si strappa ciocche di capelli. Una dei responsabili del casting assiste alla scena e convince Sarah a fare un secondo provino, suggerendole di ripetere davanti alla telecamera quanto fatto in bagno. Il ruolo sembra quasi suo, ma Sarah ben presto comprende che per realizzare i propri sogni è necessario dire molti “sì”, soprattutto nel mondo sfavillante ma oscuro dello spettacolo, ed essere pronti ad abbandonare “la vecchia carne”.

Body Horror

Starry Eyes fa ampio uso della grammatica del body horror, insistendo molto sul corpo e sulla trasformazione, fisica e interiore, della sua protagonista. Alexandra Essoe, nel suo primo ruolo da protagonista (più di recente ha stretto un sodalizio con Mike Flanagan, apparendo in The Haunting of Bly Manor, Doctor Sleep e Midnight Mass), piange, urla, si strappa i capelli, si contorce: un ruolo intenso e doloroso soprattutto perché, come la Sarah che interpreta, Essoe era davvero una giovane attrice che stava entrando nel mondo hollywoodiano. Mondo, ci raccontano i registi, che racchiude del marcio. Ce lo dicono quando l’autolesionismo di Sarah diventa il fulcro del suo provino, quando i suoi amici, anche loro aspiranti attori e registi, la deridono e giudicano, e quando la protagonista viene invitata a casa del produttore del film, colui che può aprirle tutte le porte… a patto che lei sia disposta a “donarsi” e “abbandonare i suoi vecchi occhi”. Il racconto è filtrato attraverso gli occhi di Sarah, i suoi “starry eyes” che vedono il buono in tutto, che sognano ingenuamente di raggiungere lo stato di diva, come quelle per le quali ha riservato un altarino nella sua stanza. Ingenuità che man mano Sarah perderà – o dimostrerà di non avere mai avuto? Il suo sguardo sulla realtà, su chi la circonda, si fa sempre più cupo e oscuro, mentre Sarah attraversa la sua necessaria metamorfosi verso quello status tanto agognato.

Vittima o demone?

Il corpo di Sarah qui non è incubatore di una forza demoniaca. Non è il mezzo, il vettore attraverso cui il male si manifesta, ma diventa esso stesso il male: Sarah abbraccia il cambiamento, lo desidera, va incontro spontaneamente alla sua trasformazione. È per questo che Sarah non soccombe, perché Kölsch e Widmyer le offrono un ampio margine d’azione. Il demoniaco non viene instillato in lei perché l’oscurità era già lì pronta a germogliare, nonostante l’iniziale e apparente bontà della protagonista. Sul fatto che lei venga manipolata e plasmata, il film non è molto chiaro. Sicuramente i membri dell’élite satanista, quella che ha il potere e controlla, apprendiamo, l’industria cinematografica, la spingono al limite, dimostrando più volte di essere interessati maggiormente a quello che lei è disposta a fare – strapparsi i capelli, denudarsi, offrire prestazioni sessuali – piuttosto che al suo talento recitativo. Mentre rende evidente questo meccanismo fondato sugli abusi, il film sembra non giudicare e non vittimizzare la protagonista, dipingendola come una sorta di anti-eroina alla quale, in fondo, non importa essere manipolata. L’importante è diventare una diva, acquisire quel corpo liscio, senza imperfezioni, che le sue attrici preferite possiedono e abbandonare il suo che tanto martoriava.

#MeToo e horror femminista

Chi si aspetta splatter e violenza, non rimarrà assolutamente deluso. Man mano che ci si avvicina all’ultimo atto, man mano che Sarah marcisce e si prepara a rinascere, aumenta il suo bisogno di uccidere. Ed è questo il motivo per cui Starry Eyes non può essere considerato a tutti gli effetti un film del movimento Me Too. Chi ha fatto sentire la propria voce e ha denunciato quel sistema forse non apprezzerà vedersi dipinto come una persona spietata pronta a mettere i piedi in testa (e a spaccarle, le teste). Il film manca di quella sensibilità che avrebbe caratterizzato più tardi un certo filone di film femministi, più politicamente corretti e woke, di denuncia della violenza. Mi viene in mente Il rito delle streghe del 2020, un teen-movie “pulito” scritto e diretto da una donna, Zoe Lister-Jones, in cui la riscrittura porta ad un finale opposto rispetto al suo predecessore degli anni ’90 (Giovani Streghe), con l’empowerment della protagonista e del suo gruppo d’amiche. Più vicino a Starry Eyes per le tematiche è The Perfection del 2018, thriller targato Netflix che ha per protagoniste due violoncelliste alla ricerca della perfezione. Questo film presenta quel problema tipico di tutti i film rape&revenge, ovvero l’empowerment raggiunto grazie alla violenza fisica: il revenge in seguito al rape è ciò che porta alla “perfezione” delle due protagoniste nel finale (comunque resta un bel film). Ma Starry Eyes non è, a guardarlo bene, davvero simile né al primo né al secondo (nato proprio in seno al Me Too); è un film indipendente sulla fascinazione del demoniaco, che poggia sul Satanic Panic che fece impazzire le masse negli Usa attorno agli anni ’80. Non bisogna ricercare quel tipo di denuncia e (ri)scrittura che appartiene, per ovvi e giusti motivi, alle autrici. La coppia KölschWidmyer mette in scena la “divizzazione” di una protagonista non molto amichevole – ancora di più perché all’inizio ci sembrava così buona – che si vende per entrare a far parte di quella élite. Una élite che potrebbe benissimo esistere, come sostenevano i complottisti dell’era reaganiana, ed essere costantemente in espansione dato che il demoniaco è potenzialmente in ognuno di noi.