Il 13 gennaio 2024 è andata in onda, su Paramount+, la decima ed ultima puntata della nuova (ed estraniante) serie targata A24: The Curse. Avevamo già parlato dei primi tre episodi qui e ora siamo pronti per darvi l’opinione finale.
Trama
Asher (Nathan Fielder) e Whitney (Emma Stone) conducono un programma di ristrutturazione sul canale HGTV, quando improvvisamente qualcosa inizia ad andare storto. Che una maledizione (the curse in inglese) si sia veramente abbattuta sulla coppia o che i due stiano semplicemente prendendo coscienza di sé?
Recensione
Negli ultimi anni A24 è diventata sinonimo di garanzia. Con opere come Talk to me, The Whale, Pearl, Men, X è riuscita a dimostrare di essere una nuova Re Mida: qualunque cosa tocchi si trasforma in oro. E anche con questo The Curse è impossibile affermare il contrario.
Un piccolo reminder sull’impianto tecnico
The Curse non è solo una semplice serie tv ma una vera e propria dichiarazione di intenti. La ricercatezza non sta solo nelle tematiche trattate (ed estremamente attuali), ma anche nell’impianto tecnico. Evidenti sono, infatti, le note che rimandano allo stile di Twin Peaks (David Lynch) e The Kingdom (Lars Von Trier), accompagnate da una colonna sonora (ad opera di John Medeski) e da una regia degne di nota. Come avevamo già accennato qui, lo stile registico porta lo spettatore a ricoprire più ruoli contemporaneamente: in certi momenti è un membro della troupe, in altri spettatore della serie HGTV, in altri voyeur all’interno della vita dei protagonisti. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è rappresentato con un abile utilizzo della macchina da presa che si pone dietro porte ed angoli, spiando i due protagonisti. Come i fruitori di Flipanthropy anche noi siamo incuriositi dalle dinamiche che regolano la vita di Whitney ed Asher, più che dal programma in sé. Sono loro, infatti, il cuore pulsante di questa serie e sulle loro vite ruotano quelle dei vari personaggi secondari.
La maledizione dell’ipocrisia
SPOILER ALLERT
The Curse ha come tema fondante l‘ipocrisia dell’animo umano. Tutti i personaggi, nessuno escluso sono guidati da quest’unico fil rouge che permea tanto i ruoli secondari quanto i due protagonisti. Lo è Cara, che usa il dramma del genocidio dei nativi americani per motivare la sua arte, per poi rinnegarla quando non riesce più a vendere le sue opere, lo è Duggie (Bennie Safdie) nel suo continuo e perpetuo sbeffeggiare Asher (per poi piangerlo quando non ci sarà più). Lo sono, più di tutti Asher e Whitney intrappolati in una relazione disfunzionale e posticcia che non appaga nessuno dei due, ma da cui non riescono a liberarsi un po’ per codipendenza e un po’ per profitto personale. La maledizione è infatti questa visione distorta dei rapporti umani che ben viene rappresentata dalla distorsione grafica dell’immagine. La sigla (e con lei il viso dei protagonisti) è un’evidente rimando a tutto ciò. Con l’uso di un effetto che deforma i visi degli attori (molto simile a quello utilizzato in The Ring per coloro che venivano colpiti dalla maledizione della cassetta), il regista ci mostra come tutto in questa realtà è rappresentato da una lente deformante che definisce i rapporti tra le persone.
Whitney – La regina verde
La coppia composta dai due restauratori è la vera protagonista di questa analisi. Whitney è figlia di due imprenditori dell’edilizia, accusati di aver creato quartieri invivibili per persone indigenti. Per ripulirsi da questo fantasma che la perseguita, decide di creare un business che prevede la realizzazione di case passive all’interno di una cittadina chiamata Española, una località nel New Mexico caratterizzata da un alto tasso di criminalità e di degrado, che la rende poco appetibile per i papabili acquirenti delle “opere d’arte” di Whitney. Quello che notiamo, fin dalle primissime scene, è la finzione con cui Whitney si propone alle persone. Sempre sorridente, sempre gentile, arriva a pagare di tasca sua i furti che vengono compiuti all’interno di un negozio di jeans da lei fondato, pur di non ammettere che Española è una zona problematica. L’ossessione per l’immagine di Withey è talmente estenuante da essere presente anche nelle case che realizza. Le case passive sono, infatti, ricoperte da specchi ufficialmente per “riflettere la comunità“. Tuttavia, si intuisce chiaramente come il loro scopo sia, in realtà, riflettere l’immagine di Withey stessa, in un loop infinito di autoproclamazione e autoesaltazione. Questo atteggiamento viene adottato anche con Asher. Benché Whitney non sia felice con lui, non esprime mai totalmente i suoi sentimenti, fino a quando non sarà Duggie a tirarli fuori. Anche in questo caso Whitney non si assume le proprie responsabilità, affidando alla telecamera il compito di rendere manifesti i suoi veri pensieri. Ossessionata dal culto della (sua) personalità e dall’immagine che vuole dare di sé ammetterà solo alla fine del suo percorso che l’essere venerati da una persona porta a non essere mai visti per quelli che si è realmente. Tuttavia, non ammetterà mai che questo sentimento è stata lei stesso a generarlo riversando, ancora una volta, la responsabilità delle proprie azioni sugli altri.
Asher – Il benedetto/maledetto
Nonostante Whitney sia la protagonista della serie Flipanthropy/The Green Queen, è Asher (in ebraico “il benedetto”) il vero protagonista di The Curse. Apparentemente il più fastidioso dei personaggi presenti sulla scena è quello che più subisce le pressioni esterne. Chiariamoci. Asher non è un santo, anzi; ma in questo marasma di ipocrisia è forse quello che più cerca di migliorarsi e che pagherà le conseguenze maggiori. Schiacciato da un sistema machistico, viene caratterizzato fin da subito per la sua Ipoplasia Peniena. In un mondo in cui la dimensione del pene è caratteristica fondante della mascolinità di un uomo, qualora questa non rispetti determinati standard, deve essere compensata con altri attributi tipicamente maschili, quali la ricchezza e il carisma. Asher non è dotato di nessuno dei due, in quanto la parte ricca e carismatica della coppia è proprio Whitney. Questo si riflette in Asher in una pressoché totale venerazione per la moglie che lo porta ad annullarsi totalmente, pur di elevarsi alla sua altezza, arrivando a soprassedere sulle angherie che questa perpetra nei suoi confronti. Questa dinamica sarà trasversale a tutte le puntate, ma fondamentale nella puntata conclusiva. E’ in questa decima ed ultima puntata che Asher completerà il suo ciclo narrativo. Così come, durante il rapporto sessuale, egli altri non è che il seme, così, con il parto, il suo compito sarà adempiuto, e ciò che gli resterà sarà essere scaraventato via dal letto di Whitney, poi dalla casa, quindi dalla Terra.
Arte
La critica di The Curse è anche rivolta al mondo dell’arte. Durante tutta la serie, continuiamo a sentir rimarcare, in modo quasi ossessivo, il concetto di arte e l’attribuzione di significati a qualsiasi oggetto entri in scena: le case di Whitney sono arte, le ciotole di Cara sono arte, perfino il portachiavi che viene consegnato ai nuovi inquilini è una forma d’arte. Ma la verità è un’altra: l’arte è diventata la giustificazione universale per rendere il guadagno più “sostenibile”. Se tutto assume un’importanza artistica, allora anche guadagnare soldi su case inabitabili è socialmente accettabile. Questa metafora viene ben rappresentata attraverso la figura del miliardario collezionista d’arte, il quale, in realtà, è un appaltatore militare.
Green washing e appropriazione culturale
Infine, inutile rimarcare l’evidente critica ai fenomeni del green washing e dell’appropriazione culturale. Le case passive create da Whitney ed Asher sono praticamente inabitabili, tanto da portare gli stessi ideatori ad installare un climatizzatore, in attesa dell’arrivo del pargolo. La preservazione della cultura nativa americana diventa macchiettistica e totalmente priva di una qualsivoglia consapevolezza. E benché siano i temi principali dell’intera serie, essi si mescolano e si fondono diventando un tutt’uno con l’ipocrisia generalizzata. Nell’ossessiva ricerca di approvazione da parte di Whitney ed Asher, ogni gesto perde consistenza e significato, diventando l’ombra di ciò che dovrebbe essere. In questa ottica, risulta evidente come l’intento degli ideatori di The Curse non sia criticare la sostenibilità ambientale e la sensibilità alle diverse culture ma, piuttosto, a quella gestione cieca e ignorante di temi così sensibili.
Conclusioni
The Curse è una serie imperdibile. Riesce a essere estremamente critica senza diventare mai pedante, anzi con una vena comica. Come altri prodotti A24 necessita di una visione attenta per cogliere tutte le sfumature di un messaggio così ben strutturato, ma che in certi istanti potrebbe farvi domandare “ma cosa sto guardando?!”. Sagace, perspicace, intelligente, un ottimo prodotto fruibile sul canale Paramount+.
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