Dalla mente visionaria di Wes Anderson, The French Dispatch dà vita ad una raccolta di articoli, tratti dal numero finale di una rivista americana pubblicata in una città francese immaginaria del Ventesimo secolo. Il cast comprende Benicio del Toro, Adrien Brody, Tilda Swinton, Léa Seydoux, Frances McDormand, Timothée Chalamet, Bill Murray, Owen Wilson e tanti altri.
Trama in breve di The French Dispatch: Alla morte del direttore di una redazione, il personale pubblica un memoriale che riporta le migliori storie realizzate dal giornale nel corso degli anni: un artista condannato all’ergastolo, rivolte studentesche e un rapimento risolto da un cuoco.
In occasione della morte del suo amato direttore Arthur Howitzer, Jr. (Bill Murray), nato in Kansas, la redazione del French Dispatch, una rivista americana a larga diffusione che ha sede nella città francese di Ennui-sur-Blasé, si riunisce per scrivere il suo necrologio. I ricordi legati a Howitzer confluiscono nella creazione di quattro articoli: un diario di viaggio dei quartieri più malfamati della città, firmato dal Cronista in Bicicletta (Owen Wilson); “Il Capolavoro di Cemento”, la storia di un pittore squilibrato (Benicio Del Toro) rinchiuso in carcere, della sua guardia e musa, e degli ingordi mercanti d’arte che vogliono le sue opere; “Revisioni a un Manifesto”, una cronaca d’amore e morte sulle barricate all’apice della rivolta studentesca (con Timothée Chalamet e Frances McDormand); e “La Sala da Pranzo Privata del Commissario di Polizia”, una storia di droghe, rapimenti e alta cucina piena di suspense.
Tilda Swinton descrive il film in modo conciso: “È la lettera d’amore in francese di Wes all’internazionalismo, alla cultura e alla sacrosanta arte del giornalismo indipendente”.
The French Dispatch è molte cose insieme: tante storie racchiuse dentro altre storie, dentro memorie, dentro cornici, che convergono in un insieme organico; una vetrina di meraviglie cinematografiche di tutte le forme e dimensioni in costante movimento; una lettera d’amore al mondo della stampa in generale e al periodico The New Yorker in particolare; alla Francia e ai film francesi; una toccante riflessione sulla vita lontano da casa. E questi elementi non compaiono mai uno alla volta, ma sono solitamente presenti nello stesso momento. Per dirla in modo migliore: è un film di Wes Anderson.
Per Wes Anderson, il New Yorker è un punto di riferimento fin dalle scuole superiori.
“Quando frequentavo il secondo anno delle superiori a Houston, l’appello si faceva in biblioteca e di fronte a me c’erano questi scaffali di legno pieni di riviste. C’era una rivista con un’illustrazione in copertina e ho iniziato a guardarla. Ho iniziato a leggere abitualmente il New Yorker nella sala dell’appello aspettando che cominciasse la scuola. Ho iniziato a leggere anche i numeri arretrati, a imparare i nomi dei giornalisti che apparivano più spesso. Sono diventato un vero patito”.
Wes Anderson
The French Dispatch è incentrato su quegli articoli di giornale che riuscivano a trasportarti in un altro luogo, molto prima di Google e del live streaming, che riuscivano a comunicare completamente l’atmosfera, gli odori, i sapori e il carattere di un luogo, attraverso le parole di persone che avevano l’abilità di evocare immagini nella tua mente.
Il rapporto con la parola scritta è presente in strati differenti
C’è quello che vediamo sullo schermo, ci sono i sottotitoli, c’è la struttura della rivista, e poi c’è l’importanza del rapporto con gli scrittori e con quel tipo di scrittura che ora sta scomparendo. Non a caso l’eroe di ciascuna storia è uno scrittore. La storia d’amore del regista con il cinema francese ha avuto inizio quando Anderson era molto giovane.
“Il cinema francese nasce con il cinema stesso, con i fratelli Lumière e Georges Méliès. Amo i registi degli anni Trenta, Julien Duvivier, la trilogia marsigliese di Marcel Pagnol, i film di Jean Grémillon, che ho scoperto più recentemente. E poi Jacques Tati, Jean-Pierre Melville, i cineasti della Nouvelle Vague: Truffaut, Louis Malle, Godard. E forse, al centro di tutto c’è Jean Renoir”.
Wes Anderson
Lo stile ormai inconfondibile di Wes Anderson prende molto dall’animazione classica, ed era prevedibile (ma anche inevitabile) che il regista realizzasse film animati o sequenze all’interno dei suoi film. Infatti in questo film troviamo una divertente e azzeccata digressione nell’animazione tradizionale con una sequenza realizzata nello stile del fumetto belga Le avventure di Tintin. E nell’insieme The French Dispatch assomiglia a uno dei suoi film in stop-motion (Fantastic Mr. Fox e L’isola dei cani) ma con attori al posto dei pupazzi. Fra i registi che più lo hanno influenzato per quest’ultimo film ho notato un rimando al grande Jacques Tati, ad esempio la prima sequenza ricorda molto Mon Oncle, con un’inquadratura esterna dell’edificio fatiscente del Dispatch, attraverso il quale un cameriere passa davanti a varie finestre e scale.
Da ormai diversi anni, Anderson vive in Francia e The French Dispatch rappresenta anche una lettera d’amore al suo paese adottivo, nonché la riflessione artistica di uno straniero che osserva questo paese dall’esterno. Il film è nato dal suo amore per il cinema, la letteratura e la cultura della Francia, e dalle esperienze che ha vissuto in questo paese nel corso degli ultimi dieci anni e oltre. Nel corso degli anni, i film di Wes Anderson sono diventati sempre più complessi, variegati, vivi e ricchi di dettagli visivi e narrativi in ogni fotogramma. In The French Dispatch, le immagini possono passare di colpo dal bianco e nero al colore, dal widescreen al rapporto Academy (1.37:1), i sottotitoli possono arrivare improvvisamente in qualsiasi angolo del fotogramma, e il registro emotivo può passare in un attimo dalla commedia al lirismo fino alla bramosia più profonda.
L’evoluzione di Wes come artista si rivela sempre più interessante, perché in ogni film continua a spingersi oltre. Siamo al suo decimo lungometraggio che è più complesso e dettagliato dei suoi precedenti lavori. Riesce ad avere più consapevolezza nell’incastrare tutti gli elementi fra loro per formare un quadro completo, con una maturità che gli consente di affrontare più argomenti contemporaneamente, e in maniera più velata. Come tutti i precedenti film di Anderson (ad eccezione dei suoi due film d’animazione), The French Dispatch è stato girato in pellicola. Anderson crea in modo brillante la struttura narrativa del suo film come quella della rivista che dà il titolo, iniziando con il giornalista ciclistico Herbsaint Sazerac (Owen Wilson) che porta i lettori in un diario di viaggio degli angoli più oscuri di Ennui, senza imporre troppo allo spettatore ma accompagnandolo con calma.
Mentre The French Dispatch potrebbe sembrare un’antologia di vignette senza un forte tema generale, ogni momento è allietato dall’amore di Anderson per la parola scritta e per i personaggi stravaganti che vi dedicano la loro vita professionale. Con un malinconico senso del tempo che passa, il film è anche un inno alla curiosità e alle compulsioni umane, al viaggio nel senso più ampio di scoperta e tutte quelle storie scritte ma dimenticate. E come vediamo in una scena verso la fine, non è così importante che sia inserita una motivazione o un messaggio dietro ad una singola storia, e forse stiamo perdendo di vista il potere evocativo della parola scritta, in grado di generare molteplici idee al lettore e non una sola ed unica immagine.
Per concludere, si tratta probabilmente del suo film che dividerà di più il pubblico, proprio perchè il regista si spinge ancora oltre con la sua estetica, i dettagli e le simmetrie connesse, cercando di raggiungere una perfezione artistica nonostante si tratti di un qualcosa di non tangibile. Un film costruito con una precisione maniacale ma senza troppo autocompiacimento; azzardo un mio pensiero e dico che fra qualche anno se ne riparlerà come il suo vero capolavoro.
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