The Green Inferno è un horror che presenta forti tematiche legate alla cultura dei popoli indigeni nell’Amazzonia. Del 2013, è scritto, prodotto e diretto da Eli Roth.
Trama
La trama ruota attorno ad un gruppo di studenti ambientalisti di New York che viaggiano nel cuore dell’Amazzonia peruviana con l’intento di salvare una tribù locale minacciata dalla deforestazione. Dopo la loro azione dimostrativa e la fuga, l’aereo del gruppo precipita nella giungla e gli attivisti si ritrovano faccia a faccia con la tribù che intendevano proteggere. I protagonisti Justine (Lorenza Izzo), Alejandro (Ariel Levy), Lars (Daryl Sabara), Daniel (Nicolàs Martìnez), Samantha (Magda Apanowicz) e Amy (Kirby Bliss Blanton), vengono così portati al villaggio e costretti a conoscere una realtà più cruda di quanto si aspettassero.
Una regia dalla mano decisa
Quando uscì, il film segnò il grande ritorno di Eli Roth alla regia, a distanza di 5 anni da Hostel II. E giustamente lo ha fatto sotto una copertina che si chiama Ruggero Deodato. The green inferno infatti è apertamente un omaggio alla trilogia dei cannibali del regista italiano: in ordine cronologico “Ultimo mondo cannibale” (1977), il famoso “Cannibal Holocaust” (1980) e “Inferno in diretta” (1985). La stima di Roth per Deodato era nota da tempo e devo dire che la sensazione di disagio che distingue la trilogia è facile da riconoscere in The green inferno: la seconda metà del film, concentrata unicamente sulla cruda rappresentazione di una scelta registica tendente allo splatter, ci mostra quello che accade dopo il disastro aereo senza filtri e con un pizzico di realismo. La scelta di alcune reazioni dei personaggi ci fa infatti facilmente immergere ed immaginare in quel terribile contesto. Un aiuto lo dà anche un uso consapevole della cinepresa: il regista infatti decide di passare allo sfocato in alcune scene, le più traumatiche, cosa che fa quasi fisicamente percepire una sorta di stato di shock. Insomma, chi non l’ha visto si prepari con uno stomaco bello resistente, perché il film farà di tutto per mettervi alla prova. Vediamo adesso cosa Eli Roth ha deciso di rappresentare, come, e le controversie che ha dovuto affrontare.
I temi, e i concetti chiave, studiati da Eli Roth prima del film [allerta spoiler]
Roth ha dichiarato di aver realizzato la pellicola solo successivamente a delle accuratissime ricerche e studi riguardanti questo tipo di comunità. Vediamo quanto è stato modificato per la storia e quanto invece c’è di vero:
Cannibalismo: pratica di nutrirsi di carne umana. Grazie all’antropologo Levi Strauss, possiamo elencare i tipi di cannibalismo pressappoco così: alimentare (in periodi di carestia o perché si apprezza la carne umana); politico (per punizione o vendetta verso i nemici); magico (per assimilare le capacità dei defunti o viceversa per allontanarli); rituale (se fa parte di un rito religioso, o in onore dei cari trapassati). In questo caso, il film sembra dipingere un contesto in cui si pratica il cannibalismo alimentare (o politico, con un po’ di fantasia). Di questo tipo di cannibalismo abbiamo testimonianze sì, in Brasile, ma solo dai gesuiti portoghesi del XVI secolo. Le popolazioni indigene del Sud America solitamente non sono cannibali nel senso ridotto di uccidere per mangiare, però è possibile che pratichino il cannibalismo rituale, ad esempio tritando le ossa dei loro cari defunti e mettendole nel cibo per sentirli vicini.
Infibulazione: evirazione femminile. Fondamentalmente si incidono le parti esterne dell’apparato e si fanno delle cuciture in modo che rimanga solo un piccolo foro per la fuoriuscita di urina e ciclo mestruale, per poi praticare il processo inverso (detto “defibulazione”) al momento del matrimonio. Lo scopo principale solitamente è il controllo della libido femminile. Purtroppo, alla violenza di questa pratica si aggiungono conseguenze che possono essere molto gravi: le più comuni sono infezioni delle vie urinarie e problematiche legate al parto, che spesso portano al decesso sia della madre che del bambino. Questa pratica in realtà viene svolta più in Africa e Asia che nell’America Latina, anche se è stata ritrovata in qualche gruppo etnico di quelle zone.
La prova delle formiche: rito di passaggio per diventare membri adulti della comunità. I giovani guerrieri indossano dei guanti con all’interno delle formiche velenose chiamate “bullet ants”, note per il loro potente morso. Devono tenere le mani all’interno dei guanti più tempo possibile, senza mostrare segni di dolore o disagio, dimostrando così la loro forza e il loro coraggio. Anche se nel film viene rappresentato in modo diverso, questo rito viene praticato principalmente proprio dalle tribù indigene dell’Amazzonia, in particolare nelle regioni della foresta pluviale dell’America centrale e del Sud America, luogo in cui è ambientato il film.
Un argomento da maneggiare con cautela
Una preoccupazione che ho avuto mentre analizzavo la pellicola e in contemporanea mi informavo sulle popolazioni indigene, era proprio intorno a come venissero dipinti gli indigeni in un momento storico in cui iniziavano giusto ad avere una voce.
Beh, preoccupazione fondata: il film è stato criticato da Survival International, un organizzazione no-profit che promuove campagne a favore dei diritti delle popolazioni indigene che vivono in isolamento volontario. Le accuse vengono mosse da Rebecca Spooner (direttrice della campagna peruviana di Survival International) tramite Buisness Insider (un sito d’informazione famoso in America). Sono quelle di rafforzare il colonialismo e il neocolonialismo, così come i loro stigmi contro le popolazioni indigene, dipingendole come selvagge. La preoccupazione della Spooner sta nella scelta di rappresentare i popoli indigeni come cannibali, idea che è stata più volte sfruttata e strumentalizzata per annientarli.
Il regista quindi fece una dichiarazione pubblica molto approfondita in cui espresse la propria stima verso il lavoro che svolge la Spooner e ringraziandola del suo operato, ma ricordando che quello di cui si parla è solo un film. Si difese raccontando le sue lunghe ricerche sulle tribù indigene, svela quanto abbia contribuito ad aiutare i popoli che hanno collaborato alla realizzazione della sua pellicola (loro non avevano dubbi su quanto quella fosse un’opera di finzione, ahia), e quanto quest’ultima mostri la bellezza del paese peruviano e le sue usanze, oltre ad una trama che può piacere o non piacere. Aggiunge inoltre che le aziende del gas che continuano a distruggere queste realtà non hanno bisogno di una scusa per attaccarle, ce l’hanno già: le risorse naturali sotto i loro territori.
Risposta comprensibile, ma tutto ciò succede prima dell’uscita del film, e l’intenzione di Roth è esplicita nel suo operato. I primi venti minuti e il finale spiegano da soli la sua critica sociale, incentrata sull’ipocrisia delle persone che trattano sui social media argomenti di cui non sanno quasi nulla. Attivisti che operano più per farsi vedere mentre lo fanno, che per reale interesse. Ci sono addirittura delle inquadrature dedicate solo e unicamente a quelli che definirei ‘bianchi benestanti’. Le inquadrature immobili di Roth non possono non suggerire un senso di ridicolo intorno a queste figure, oltre all’ipocrisia evidente di alcuni personaggi che vivono di frasi fatte senza contenuti. Il finale inoltre svela molto di più, del suo pensiero: non importa cosa facciano o non facciano queste popolazioni, vanno protette ugualmente.
Per approfondire le questioni controverse che hanno portato all’uscita posticipata del film vedi qui.
Il concetto è fondamentale
Nonostante l’unica nota negativa riguardante il livello di recitazione (ma essendo quasi un film corale può succedere, per fortuna la protagonista è eccellente), il film riesce evidentemente nel suo intento, con l’esito di uno stomaco leggermente teso e con la sensazione di una consapevolezza in più. Circa la delicatezza dell’argomento, trovo che in realtà con il suo finale Roth abbia dato un fortissimo messaggio su come la pensa a riguardo. Non ci deve interessare l’uso e costume di una popolazione per decidere se sterminarla o meno. Film consigliatissimo. E poi dai, è divertente.
Lo conferma anche un tweet di Stephen King: “The green inferno è come un glorioso ritorno ai film drive-in della mia giovinezza: sanguinosi, avvincenti, difficili da guardare, ma da cui non puoi distogliere lo sguardo.” Il retweet di Roth: “anche con solo 140 caratteri non riesco a trovare le parole. Veramente senza parole. Grazie mille, sei il mio eroe.”
The Green Inferno è su Amazon Prime con iscrizione al canale Midnight Factory.
Per chi volesse rimanere sul tema, un altro film interessante sul cannibalismo che vi consiglio è → Fresh, disponibile su Disney plus!
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