Stati Uniti, anabasi. Decennio tra gli anni ’70 e ’80, catabasi.
The House That Jack Built (La casa di Jack) di Lars von Trier è un’imperialistica ascesa di un decennio in discesa: clinica e viatica è la cura attraverso la quale il regista affronta il percorso iniziatico, il corso e il decorso di un assassino seriale tramite una via crucis di sei tappe che termina in un epilogo denominato in traslitterazione greca katàbasis in cui L. von Trier uccide fuori campo e fuori pellicola l’ultima vittima di Jack, il concetto umano di eroe sacralizzato dalla società odierna: la struttura narrativa canonica greca (poi cristologica e infine supereroistica) prevede l’eroe protagonista affrontare il proprio destino in discesa, continuare il suo cammino in salita e terminare nell’acmè mitica ovvero il punto più alto (la vetta) della carriera eroica che coincide con l’imminente caduta e morte dell’eroe; invece è diametralmente opposta la visione di L. von Trier perché il suo Jack diventa narrativamente protagonista senza nessuna iniziazione eroica ma in medias res (tramite il dialogo iniziale tra Matt Dillon e Uma Thurman), vive in un crescendo di violenza e muore in una catabasi priva di conclusione mitica.
Il dialogo tra i due attore – Dillon/Thurman – è uno splendido e geniale esempio di come la sceneggiatura curata da L. von Trier costruisca la decostruzione del personaggio di Jack tramite l’utilizzo della parola come motore demiurgico e creazionistico: il film introduce al pubblico in sala il personaggio di Jack in modo visivamente diretto e immediato senza nessuna presentazione onomastica o caratteriale; eppure L. von Trier utilizza la psicomagia del regista Alejandro Jodorowsky, in particolare la psicomagia lessicale presente nel suo ultimo lavoro cinematografico Poesía sin fin (Poesia senza fine): il personaggio che il pubblico spettatore in sala conoscerà successivamente con il nome di Jack è introdotto da un dialogo la cui focalizzazione ripetitiva e ripetuta è basata sull’oggetto del cric non funzionante che impedisce a U. Thurman di effettuare la riparazione della propria automobile guasta sul ciglio della strada.
In lingua originale inglese il sostantivo italiano cric è tradotto come jack; questa sinonimia tra l’oggetto e il nome del protagonista crea un’oggettivazione linguistica per seguire la politica psicanalitica del regista e un correlativo oggettivo per seguire la visione retorica e artistica della pellicola: il personaggio di U. Thurman rivela a Jack che «this jack […] is not working (questo cric […] non funziona)» sottolineando indirettamente un collegamento tra la rottura dell’oggetto e la guasta psiche del protagonista; al tempo stesso il cric diventa la concreta correlazione narrativa che porta a compimento la pseudo-iniziazione del protagonista tramite una metaforica tecnica del fucile di Cechov.
L. von Trier sembra – come in più occasioni durante il film – utilizzare la scena narrativa della propria pellicola per rispondere alle biografiche accuse rivoltogli durante la carriera: questa fusione di oggettivazione correlativa è una tecnica utilizzata più volte durante la pellicola con una sostanziale variazione narrativa quasi a rispondere in maniera ironica e revisionista alle accuse cui spesso il regista è stato avvicinato: conveniunt rebus nomina saepe suis (i nomi spesso sono collegati alle cose/persone cui appartengono) o in sintesi nomen omen: Verge nel suo simbolismo lessicale di limite e precipizio (in collegamento alla caduta infernale sia metaforica sia fisica di Jack), Grumpy come grottesco gioco di cinica irritabilità metacinematografica, Simple come riferimento all’ingenuità caratteriale di Jacqueline.
L. von Trier archivia definitivamente i suoi Dogma scrivendo una programmatica demolizione non diversamente da Jack intento a demolire una casa in cerca del materiale più adatto con cui fondare la propria dimora: la colonna sonora si appoggia frequentemente sul nevrotico virtuosismo di Glenn Gould utilizzato come una diapositiva didattica in montaggio sonoro.
Questa eccessiva esposizione dei precetti del manifesto cinematografico determina il collasso del sistema e la nascita dell’acmè – intesa stavolta come massima maturazione artistica – del regista: La casa di Jack si rivela un testamento di tecnica cinematografica, ideologia artistica e sostrato autobiografico; L. von Trier redige e poi dirigere un nuovo Manifesto basato sull’esaltazione Dada del ruolo dell’artista nella società e sulla necessità dell’estetismo di partorire arte dalle viscere umane perché non si dimentichi che l’amore porta a germogliare i fiori ma il dolore a rendere il terreno fertile – risulta progettuale in tale visione una scena di montaggio basata su fotogrammi estrapolati da pellicole appartenenti alla filmografia stessa del regista.
Il lavoro di un artista deve essere visto soltanto con gli occhi della morale soggettiva a non tramite lo sguardo dell’etica imperante perché il dolore presente in una creazione d’arte non deve essere giudicato dalle ragioni della mente collettiva neanche se sia il medesimo artista a decidere di percorrere questa strada come Jack afferma a Verge ricordando la volontà virgiliana di dare rogo a Eneide affinché nessuno mai leggesse quell’opera ancora piena di versi da puntello.
Virgilio muore senza riuscire a perfezionare versi che secondo la propria opinione necessitavano di modifiche e miglioramenti: la metrica per il poeta latino era l’ingegneria strutturale su cui fondare il proprio poema epico; eppure unicamente tramite la poetica cura nella scelta delle parole un esametro da mera e scientifica forma metrica diventa architettura di bellezza – questa continua cura diventa la nevrosi umana di Jack nato ingegnere per volontà materna ma cresciuto architetto per volere esistenziale.
La parola cura in latino possiede un significato ambivalente in base al suo contesto di utilizzo (vox media), un significato positivo di protezione e un significato negativo di preoccupazione: la cura di Jack nel suo ciclico tentativo di costruire una casa diventa preoccupazione clinica resa evidente dall’utilizzo immediato di un lessico da terapia medica (dopo pochi minuti dall’inizio del film Verge definisce Jack tramite il termine tedesco Ordnungszwang per indicare in diagnosi il disturbo ossessivo e compulsivo del protagonista nel cercare una simmetria e un ordine maniacale nel disordine della propria psiche); la medesima cura diventa protezione perché avvicina Jack a un egotismo così radicato da elevare la sua condotta a uno schema non più umano ma provvidenziale e divino (dalla facilità che contraddistinse Jeffrey Dahmer di eludere continuamente la presenza della polizia alla manzoniana pioggia risolutrice e purificatrice a pulire chilometriche scie di sangue).
Quest’ultimo episodio citato – la pioggia presente nel secondo capitolo della pellicola – presenta una splendida messa in scena tramite una conclusiva inquadratura che riprende il tombino dentro cui confluisce acqua di pioggia e sangue: medesima scelta di regia è presente nella produzione televisiva di L. von Trier del 1988 Medea, la trasposizione della vicenda greca riguardante l’infanticidio perpetrato da Medea contro i due figli.
Dopo l’uccisione della propria prole – in una scena a mio avviso visivamente molto più violenta del duplice infanticidio presente nel capitolo terzo de La casa di Jack – L. von Trier inquadra dall’alto la schiuma d’onda del mare Egeo smuovere le impurità presenti su un lembo di spiaggia della Tessaglia mentre teneramente protegge (come fosse acqua benedetta in un battesimale fonte divino) il personaggio di Medea nonostante l’atroce azione commessa.
«Per molti anni ho girato film su donne buone, ora ho fatto un film su un uomo malvagio», ha affermato il regista descrivendo la propria ultima opera: Medea di L. von Trier diversamente dal medesimo personaggio pasoliniano rappresenta una sorta di prequel sulla gioventù di Jack (in La casa di Jack il regista presenta soltanto alcuni tratti dell’infanzia del protagonista) in cui la violenza è ancora vista come liberazione priva di concetti e strutture ideologiche; di contro, Jack segue in modo estremamente convinto un’ideologia omicida presentata abilmente in una sceneggiatura similmente teatrale da Alfred Hitchcock nel film Rope (Nodo alla gola).
Nel film hitchcockiano del 1948 il personaggio di Rupert Cadell afferma la visione dell’omicidio come opera d’arte e afferma che unicamente un artista può ergersi con raffinatezza a ruolo di omicida (come nel caso del soprannome di Mr. Sophistication assunto da Jack nella pellicola; una visione ironicamente condivisa anche dallo scrittore Charles Dickens in opere grottesche e antiborghesi come il racconto Capitan Omicidio – due volumi di C. Dickens sono presenti nella libreria di Jack: sebbene sia impossibile leggere l’intera costola libraria per individuare il titolo dell’opera sorrido immaginando sia un’antologia di racconti in cui è presente anche il citato Capitan Omicidio.
Il mio sorriso deve – però – lasciare spazio a un’oggettiva analisi: l’assoluta somiglianza delle costole dei due libri di C. Dickens è probabilmente segno di un’unica opera dell’autore divisa in due tomi per questioni di volume; e lo scrittore inglese ha sempre affidato alle stampe romanzi voluminosi sotto il punto di vista della prosa narrata. Ipotizzo con le dovute argomentazioni che il romanzo di C. Dickens presente nella libreria di Jack sia Martin Chuzzlewit: il romanzo è particolarmente prolifico per il numero delle pagine – l’edizione italiana pubblicata dalla casa editrice Adelphi conta quasi 1300 pagine – e presenta molti punti collegati alla figura di L. von Trier e alla trama de La casa di Jack. Uno dei due personaggi principali del romanzo è Seth Pecksniff, un architetto dall’aspetto eticamente rigido e composto, che nasconde un animo subdolo e cinico al punto da manipolare i propri allievi di apprendistato rubando le loro creazioni e i loro progetti.
L’attenzione manipolatoria di Seth Pecksniff è particolarmente rivolta all’apprendista Martin Chuzzlewit perché l’architetto punta all’eredità testamentaria dell’allievo; durante la vicenda narrata Martin Chuzzlewit compra negli Stati Uniti un lotto di terra apparentemente edificabile, soprannominato Eden dal venditore che declama l’aspetto paradisiaco e fertile del terreno: la zona si rivela sterile, inabitabile e paludosa ma la giovanile caparbietà da futuro architetto spinge il ragazzo a vivere in quel luogo restando quasi ucciso dalla malaria; infine nel confronto finale tra allievo e maestro Seth apparentemente vincitore viene smascherato rivelando la propria natura ambigua e malvagia.
Martin e Jack condividono il desiderio di maturare la loro esistenza come architetti; credono con ferrea convinzione nel loro progetto di rendere edificabile un lotto di terra – il concetto di un luogo apparentemente sicuro in cui rifugiarsi era già presente nel concetto di grotta magica in Melancholia e dell’omonimo Eden in Antichrist – rivelatosi infruttuoso; descrivono una società statunitense illusoria e malata; reputano entrambi l’architettura superiore all’ingegneria per valori artistici e morali: C. Dickens aveva anticipatamente sottolineato nella descrizione delle workhouse in Oliver Twist il rapporto tra l’urbanistica di una città, la sua povertà e la degenerazione dei valori dei suoi abitanti, chiedendo alla morale dell’architettura e non all’etica dell’ingegneria di risolvere il dilemma sociale e ponendosi come prototipo dell’artista-medico-della-società successivamente teorizzato dal Naturalismo di Émile Zola e da Jack che propone arte e bellezza come cura; tentano invano di fondare il loro futuro emotivo tramite una sostanziosa eredità (il primo tentativo di Martin di fidanzamento fallisce come a fallire è inizialmente la ricerca di Jack sul materiale adatto a costruire una casa che resta in piedi soltanto per merito di un battipalo non visto come in Dogville); e affrontano un personaggio a loro inizialmente amico, rispettivamente Seth Pecksniff nel romanzo e S.P. interpretato da David Bailie nella pellicola – risulta una piacevole coincidenza che il secondo personaggio possieda nel nome le iniziali del primo.
Se la mia ipotesi risultasse plausibile, L. von Trier si dimostrerebbe uno sceneggiatore capace di approfondire in maniera splendida la caratterizzazione linguistica dei propri personaggi continuando il lavoro di oggettivazione e di correlazione affrontato precedentemente nel rapporto tra Jack e il cric di un’automobile).
Il regista presenta in maniera fortemente voluta un’altra visione concettuale alla base dell’agire di Jack: tramite un magnifico e scarno cortometraggio animato L. von Trier rimodula e spiega il concetto di oscillazione eterna tra dolore-piacere-noia di Arthur Schopenhauer mostrando allo spettatore una linea di lampioni costantemente in cerca di una luce volutamente buia come soggetta a una pellicola per negativi, uno sviluppo ottico cui Jack è emotivamente legato.
La rincorsa ciclica dell’oscillare umano è spiegata attraverso un altro espediente di scrittura, ovvero la filastrocca (un genere poetico infantile che giunge da un mondo apparentemente semplice e fruibile come la tecnica dell’animazione): il titolo del film sia nella versione italiana che inglese rimanda alla ricerca continua dell’agire dell’uomo ricordando unicamente per struttura narrativa la nostra nazionalistica Alla fiera dell’est di Angelo Branduardi.
L’unico momento in cui il regista torna a una linearità temporale ed emotiva nei pensieri compulsivi e ripetitivi di Jack avviene in un lento e graduale conto alla rovescia che il protagonista effettua prima di caricare un’arma da caccia nel capitolo terzo del film attraverso una messa in scena in cui lo spettatore, spinto da un’apparente rottura della quarta parete, è partecipe dell’azione omicida tramite il medesimo cinico countdown del film Funny Games di Michael Haneke – una visione lineare come lo sguardo in primo piano di Jack e come le schematiche domande retoriche intonate da David Bowie in Fame che ritmicamente regge come soundtrack principale della pellicola.
L. von Trier sceglie un voice-over narrativo e l’utilizzo di intermezzi in 4:3 (precedentemente da me definiti in sintesi come diapositive) per avvicinarsi allo spettatore insistendo di frequente sulla figura di William Blake sia per mezzo di due poesie (La tigre e L’agnello) sia di incisioni (le incisioni a tema dantesco); la chiusa della pellicola è affidata proprio all’opera di Dante Alighieri: risulta banale e superficiale il riferimento alla cantica infernale di D. Alighieri sia da un punto di vista iconico (la decisione del reparto dei costumi di scegliere l’accappatoio rosso indossato da Jack in riferimento alla tunica dantesca; e l’utilizzo di un concept design di stasi pittorica – precedentemente utilizzato nell’incipit di Melancholia – con riferimento al quadro La barca di Dante di Eugène Delacroix) sia da un punto di vista concettuale (la paura infernale di Jack che vive una tassidermia interiore simile al congelamento che il personaggio sottopone alle vittime). Questa banalità reputo sia in parte apparente perché la lettura statunitense e scandinava dei versi di D. Alighieri si focalizza di frequente sull’aspetto puramente immaginifico e sulla potenza visiva dell’opera.