Finalmente siamo riusciti a recuperare l’attesissima terza (e probabilmente ultima) stagione della serie danese The Kingdom, firmata dal provocatorio e mai banale Lars Von Trier. E, ancora una volta, non siamo rimasti delusi.

Trama

La serie The Kingdom è stata così potente da riuscire ad influenzare Karen (Bodil Jørgensen), una donna sonnambula che una notte si ritroverà davanti alle porte dell’ospedale danese più famoso al mondo. Le porte del Regno si stanno riaprendo e con esse verranno liberate le malvagità contenute al suo interno.

Recensione

Era il 2018 quando nelle sale usciva l’ultimo lungometraggio di uno dei miei registi preferiti: Lars Von Trier. Con il suo La casa di Jack (The House that Jack built) il tremendo danese era riuscito a stregarmi e stupirmi ancora una volta. Ci sono voluti ben tre anni per vedere una sua nuova opera, anche se stavolta su piccolo schermo. Potete, a questo punto, capire quanto fosse trepidante la mia attesa. Attesa che è stata ripagata con una stagione decisamente splendida, capace di essere pungente, divertente, triste e riflessiva come solo le opere di Von Trier sanno essere.

La regia e la distanza dal Dogma95

Nell’articolo precedente (The Kingdom Exodus – il grande ritorno (e forse epilogo) di Lars Von Trier) avevo già introdotto come, nelle ultime opere, il Maestro (termine non casuale) si fosse allontanato dal Dogma95, movimento da lui fondato, senza mai rinnegarlo ma rilassandolo (rilassare un problema in matematica significa eliminare alcuni vincoli, rendendolo più semplice da risolvere NdR). La domanda che mi ponevo era come sarebbe riuscito a coniugare le prime due stagioni di The Kingdom, girate in pieno stile Dogma, con le sue nuove modalità di regia. E la risposta è semplice ma brillante: con un escamotage. Nella prime scene della prima puntata vediamo, infatti, la protagonista Karen guardare su supporto fisico la serie The Kingdom. La camera a mano è assente e i colori sono freddi e sui toni del blu (complementari del seppia caratterizzante le prime stagioni). Tuttavia, nel momento in cui la protagonista entra nel Regno la fotografia si tinge dei colori del passato e ritorna la camera a mano. Entrando nell’ospedale entra nella serie tv. Questo stratagemma risulta funzionale sia a rendere plausibile e non forzato il passaggio da uno stile di regia all’altro, sia al significato di questa ultima opera di cui parleremo nei capitoli successivi. Risulta necessario sottolineare come, nonostante vi sia un richiamo allo stile tipico del Dogma, questo non viene applicato nella sua totalità. Lars non rinnega il suo passaggio evolutivo, la sua crescita come regista, di cui aveva parlato proprio attraverso La casa di Jack. Guarda al passato, con una certa dolcezza verso quel ragazzo ribelle, ma rimane nel futuro dove è e dove è arrivato dopo un lungo (e doloroso) percorso di crescita.

I temi trattati e i cambiamenti di stile

Per quanto riguarda i temi anche in questo caso il cambiamento c’è e si vede. Le prime due stagioni di The Kingdom sono una sorta di supercazzola che il regista fa allo spettatore. Divertente, sagace e senza ombra di dubbio una chicca, ma pur sempre una supercazzola. Lars si prende gioco delle serie tv, degli spettatori delle serie tv creando un’opera completamente surreale in cui si percepisce il desiderio di provocare e di mettere alla berlina tutto il mondo del piccolo schermo. Ed è geniale. Perché l’allora trentottenne danese riesce, nonostante il desiderio di scherno, a tenere incollato allo schermo anche il più attento e perspicace degli spettatori. E questo non è da poco. Nella terza stagione Lars abbandona questo desiderio di porsi in una sorte di posizione di dominio, da cui prendere in giro gli spettatori, e si mette in gioco. Mantenendo il suo tipico sarcasmo e il black humor invero li ridimensiona, rendendoli più rivolti al sistema che non allo spettatore stesso. Inoltre, inserisce un elemento che è caratteristico delle sue ultime opere e, in particolare, di Nymphomaniac e La casa di Jack: l’aspetto catartico. Infatti, rispetto alle stagioni 1 e 2 abbiamo la presenza di molti più dialoghi “filosofici” sui temi cari al domine: religione, fede, moralità. E soprattutto, come avevamo visto anche nelle già menzionate opere, vediamo un Lars che utilizza la settima arte per discolparsi ed esporre il proprio punto di vista su diatribe che lo hanno colpito direttamente.

Le accuse di molestie da parte di Björk

Nel 2013 uscì Nymphomaniac, un film considerato scandaloso dai ben pensanti, in cui veniva raccontata la vita di Joe, una donna affetta da ninfomania. Scioccati e accecati dalle scene di sesso esplicito molti non hanno colto la vera essenza di quell’opera splendida: uno scorcio nella mente del regista. Tramite questa pellicola l’enfant terrible danese cercava di esporre le sue idee sulla vita, sulla morte, sulle persone e sul mondo cercando di difendersi dalle infamanti accuse di essere un simpatizzante del nazismo che lo avevano portato ad essere considerato una persona “non gradita” al Festival di Cannes.

Lars Von Trier al Festival Internazionale del Cinema di Berlino con la maglietta incriminata

Allo stesso modo nel 2018 con La casa di Jack Lars rispose alle accuse di misoginia e nuovamente a quelle di essere vicino alle ideologie del Terzo Reich. Tuttavia, nello stesso anno venne accusato dalla cantante e attrice Björk di molestie. La risposta a queste ultime avviene proprio in questo The Kingdom, Exodus. Il siparietto tra Anna (Tuva Novotny) ed Helmer Jr. (Mikael Persbrandt) non è sicuramente casuale, soprattutto tenendo in considerazione sia i lunghi abbracci che l’avvocato elargisce ad Anna (una delle accuse mosse dalla cantante erano proprio gli abbracci non richiesti da parte del regista) sia il discorso presente nell’episodio quattro:

H: “Lei ha dichiarato che io l’ho stuprata?”

Avv.: “Diciamo di si, sfortunatamente. Lo ha fatto intendere”

H: “Perchè lo ha fatto?”

Avv.: “Perchè gliel’ho raccomandato io. Lei si è sentita estremamente violata dopo la tua penetrazione!”

H.“Penetrazione? Lei è saltata addosso a me, mentre farneticava qualcosa a proposito di un serpente sul pavimento. E’ saltata lei addosso a me! Tutto questo è una menzogna!”

Avv.: “Beh.. questo è quello che sostieni tu”.

[Portando Anna nell’ufficio dell’avvocato]

H: [rivolgendosi ad Anna] Cosa c* stai facendo?”

Avv: “La mia cliente si sente violata, giusto? Come il comunicato stampa poeticamente riporta, la mia cliente non sarebbe mai finita volontariamente nel tuo grande e sessuale abbraccio. La tua lascivia irradia da ogni singolo scatto”. […]

H: “Lo dico nuovamente, lei mi è saltata in braccio!”

Avv.: “Beh.. sicuramente ti sarebbe piaciuto che lo facesse. E questo è malato”

H.: “Sembrerò come un criminale”.

Anna: “Si, ma non lo sono tutti gli uomini? Se assumiamo che i pensieri siano criminali tanto quanto le azioni allora possiamo condurre l’intera popolazione maschile al patibolo”.

– Dialogo tra Anna, Helmer Jr. e l’avvocato svedese

Prescindendo la nostra personale opinione su questa vicenda è innegabile come, ancora una volta, Lars utilizzi la settima arte come mezzo per esprimere le proprie opinioni in merito a fatti personali.

Esorcismo del dolore

Quando vidi l’intervista rilasciata durante la presentazione al Festival del Cinema di Venezia di Exodus ebbi la netta sensazione che per il regista questa terza e, probabilmente, ultima stagione di The Kingdom fosse un modo per esorcizzare il dolore sia fisico che mentale. Non è una novità, infatti, che il genio danese sia affetto da morbo di Parkinson e che questo lo debiliti molto. Lars aveva, tuttavia, introdotto il concetto di dolore e di pena già nella sua opera precedente. Nella discesa all’inferno, infatti, sentivamo un rumore, quasi un fischio persistente, e Verge spiegava a Jack quanto a noi che quello fosse il rumore di tutto il dolore del mondo. Più ci si avvicinava al centro dell’inferno, più il dolore aumentava e così il rumore. Questa idea viene ripresa all’interno della serie (episodio 02) tramite i ricercatori del dolore.

R.: “Stiamo facendo una ricerca sul dolore”. […]

K.: “Quindi il dolore è vostro amico?”

R.: “Amico o nemico non ci interessa. Noi lavoriamo con le relazioni cosmiche. Scienziati delle vecchie onde radio pensano che il rumore bianco sia un eco del Big Bang. Noi pensiamo che si sbaglino. Noi crediamo di poter dimostrare che il rumore bianco è causato dal Big Scream”.

K.: “E cos’è il Big Scream?”

R.: “Milioni di anni di dolore accumulato. Tutta la vita sulla terra è definita da una qualche specie di dolore. Quindi il Big Scream è dovuto al tuo dolore quanto al mio ma soprattutto è dovuto al sibilo di universi morenti. I rumori bianchi sono il mezzo di comunicazione con questi sibili”.

Dialogo tra Karen ed i Ricercatori del dolore

L’idea di girare quella che potrebbe essere la sua ultima opera dentro ad un ospedale, quando l’idea di entrare in un ospedale lo terrorizza (come dichiarato durante la conferenza alla Biennale) ed inserire un dialogo del genere sul dolore è sicuramente il modo per superare una paura ed aprirsi allo spettatore come mai prima d’ora.

Scena tratta da The Kingdom Exodus

Il controverso rapporto con la spiritualità

Che Lars Von Trier abbia un rapporto piuttosto controverso con la spiritualità è ben noto. In Nymphomaniac più di uno erano i dialoghi a tema religioso così come il La casa di Jack. Anche in The Kingdom Exodus abbiamo questo aspetto della personalità del regista. Willem Dafoe interpreta, magistralmente, il demonio che cerca di diffondere il caos tra le mura del Regno. La lotta è evidente ed è tra il bene e il male ma, tra una seduta spiritica, un riferimento a Babilonia e un balletto goliardico per scacciare il dolore che ricorda un immenso human centipede abbiamo anche delle affermazioni che fanno riferimento al rapporto che il regista ha con la religiosità:

“Credi nel divino?”

“Si ma non ho fiducia in esso”

Dialogo tratto da The Kingdom Exodus

Non è tanto il manifesto a rappresentare il pensiero del maestro quando il sommerso. Le mezze frasi, i dialoghi, i sottili riferimenti ci permettono di capire che Lars crede, in un qualche modo, ma è scettico. Ed è piuttosto interessante questo suo continuo interrogarsi sull’ultraterreno, ci permette, infatti, di interrogarci a nostra volta, di aprire un dialogo, di valutare le opzioni. E soprattutto di ricordarci che bisogna sempre prendere il bene insieme al male.

Conclusioni

Potrei letteralmente continuare a scrivere per ore di questa terza stagione di The Kingdom. Ogni puntata, ogni inquadratura ha qualcosa da dire e comunicare. Si potrebbe fare un’intera trattazione sulla diatriba tra danesi e svedesi e i riferimenti, palesi o meno, a questa “guerra”. I collegamenti con Nymphomaniac sono innumerevoli, sia per quanto riguarda l’aspetto stilistico che per i temi trattati, senza dimenticare il fatto che, nella quinta puntata, viene utilizzato il Cantus Firmus, colonna sonora della pellicola del 2013. Vengono ripresi i rimandi a Twin Peaks di David Lynch forse in modo anche più evidente rispetto alle stagioni precedenti. E poi la citazione al Settimo Sigillo di Bergman è poesia pura. Insomma, come appare evidente questa terza stagione mi è piaciuta anche più delle due precedenti. Permea, attraverso lo schermo, il desiderio del Maestro di lasciare il segno ma anche di divertirsi e di essersi divertito nel girare questa ultima stagione. Lui è l’enigmista colui che tira i fili di questo show e noi non possiamo far altro che cercare di risolvere il suo puzzle entrando, anche noi, a Babilonia.

Classificazione: 4 su 5.

Leggi anche: The Kingdom: Il regno – Il bene e il male secondo Lars von Trier; Riget 2 – Ritorno nel Regno degli incubi; The Kingdom Exodus – il grande ritorno (e forse epilogo) di Lars Von Trier