Se gli amanti dell’horror e i fan più fedeli hanno esultato alla notizia del ritorno di Dario Argento dietro la macchina da presa, che a breve inizierà le riprese di Occhiali neri, dall’altra ha fatto storcere il naso a più di qualcuno sapere che ancora una volta la figlia Asia avrebbe fatto parte del cast; scelta che, filmografia alla mano, ha coinciso con l’inizio del declino qualitativo dei suoi film.
Nell’attesa che la sua nuova fatica arrivi nelle sale però, il 2019 ha visto il cinema nostrano presentare due film che sono stati in grado di staccarsi dal solito filone della commedia che ci caratterizza ormai da anni. E se le pellicole in questione non si inseriscono in un trend ben preciso, danno modo di definirne alcune caratteristiche che trovano analogie con un certo horror d’autore che vede in registi come Jordan Peele (Get out e We) e Ari Aster (Hereditary e Midsommar) due tra i massimi esponenti contemporanei.
Con il Signor Diavolo Pupi Avati torna alle origini e lo fa con un’eleganza registica che arricchisce una trama (scritta sempre da lui) che analizza il male e lo mette a confronto con la superstizione e il fanatismo di un cattolicesimo rurale che, ancora oggi, sopravvive silente in alcune realtà periferiche del nostro paese.
Il film, una fiaba nera ambientata all’inizio degli anni ’50 in un paesino lagunare del veneto, segue le vicende di un funzionario del ministero di grazia e giustizia, Furio Momenté, inviato a investigare su un caso di omicidio commesso da un giovanissimo parrocchiano, Carlo Mongiorgi, nei confronti di un suo coetaneo, Emilio Vestry Musy, figlio di una donna dell’alta borghesia locale e accusato dalla comunità di essere un messaggero del Diavolo per via di alcune deformazioni fisiche congenite che rendono mostruoso il suo viso. Su di lui circolano strane leggende ed è convinzione diffusa che il suo aspetto sia la conseguenza di un accoppiamento zooerastico della madre (interpretata da un’eccezionale Chiara Caselli), secondo l’antico parallelo che identifica un disordine fisico come conseguenza di un disordine morale.
Pian piano l’avvocato viene a conoscenza di come la realtà di quei luoghi sia filtrata da una visione profondamente alterata della religione, in cui credenze pagane ridisegnate sapientemente dalla chiesa locale, fungono da strumento di controllo mentale e sociale. Tuttavia l’ordine impartito dall’alto è di insabbiare il caso e non danneggiare la credibilità della chiesa in una regione che rappresenta un enorme bacino elettorale per la nascente DC e che vede ora nella madre della vittima, prima sostenitrice del partito, un’acerrima nemica.
Il film scorre lentamente, la regia attenta e ricca di dettagli si sofferma sulla campagna lagunare e sui colori che il cielo al tramonto disegna come presagi nefasti, creando la sottile soglia di passaggio che divide la ragione dai peggiori impulsi che si risvegliano nella notte.
Come ne La casa delle finestre che ridono, Avati si affida a un’idea solida e la porta avanti sfumando il genere ora nel gotico, ora nel politico, ora ancora nell’horror d’autore; tralascia i cliché, evita sapientemente la trappola dei jump scare con una regia coadiuvata da una fotografia in grado di esaltarne ogni scelta stilistica, e da campi lunghi che, da soli, riescono a far crescere quel senso di angoscia che sale pian piano come fosse un personaggio a sé. Un finale credibile e angosciante scoperchia il vaso di Pandora, chiudendo il cerchio di una storia che merita puro apprezzamento da parte degli amanti del genere, ma che non può passare inosservata per le diverse implicazioni politico e morali che lo rendono, a giudizio del sottoscritto, uno dei migliori film italiani del 2019.
La seconda pellicola horror uscita nell’ultimo anno vede alla macchina da presa un esordiente, Roberto De Feo, che di The Nest (Il nido) è stato anche co sceneggiatore. Il film in questione non si lega ad alcuna tradizione nostrana ma si rifà a un certo modello di horror psicologico ad ampio respiro internazionale.
In una bellissima villa immersa nel verde delle campagne piemontesi (anche se il film è atemporale e non fornisce riferimenti geografici) una strana colonia di individui vive in una forma di auto isolamento con il resto del mondo, con l’intento di portare avanti un non specificato programma di sviluppo.
Il protagonista, un adolescente di nome Samuel (pregevole l’interpretazione di Justin Korovkin), è oggetto delle morbose attenzioni della madre (splendida la prova di Francesca Cavallin, attrice sottovalutata), che lo educa tra lezioni di pianoforte, di agraria e gestione aziendale. La vita bucolica e iper organizzata sembra scorrere tranquilla fin quando un’adolescente di nome Denise irrompe nella loro vita e viene presa in casa come domestica; da quel momento la sua anima ribelle e una play list di pezzi rock stravolgeranno la quieta esistenza di Samuel.
Il nido è un film che raccoglie tutti gli elementi di un ottimo horror; una sceneggiatura non banale, una profondità psicologica che accompagna lo spettatore in un lento e inarrestabile sentiero di alienazione visiva e un finale a cui viene affidato, con successo, il compito non facile di dare forma a tutte le ombre che man mano si allungano tra i corridoi e le stanze di Villa dei Laghi, alle azioni all’apparenza irrazionali della madre, agli stacchi orrifici di pratiche neo pagane e visioni di entità non umane.
De Feo accompagna lo svolgersi degli eventi con mano salda; l’esordio alla regia si rivela promettente e in grado di creare quel crescendo di tensione e inquietudine che sono l’anima del film.
In maniera calcolata fa uso di schemi ripresi dal genere giallo classico, disseminando piccoli indizi che trovano una logica nella parte finale e che danno la possibilità a un occhio allenato di giungere alle medesime conclusioni con ragionamenti deduttivi. Se pure non mancano cliché di genere (ho trovato infelice la trovata di girare la scena del medico sadico che danza sulle note di musica classica, scelta fin troppo abusata), Il nido si rivela essere un film appetibile e molto ben girato; la fotografia è di primissimo livello, gli interni della villa sono splendidi nella loro inquietante decadenza e un finale pronto a ribaltare parecchie certezze lo rendono un soggetto perfetto per trasformarlo in una possibile trilogia.