Fox Chapel, borough della Pennsylvania, muta cartina geografica e diventa Colono, sobborgo di Atene.
Il film del regista statunitense Nicholas McCarthy riesce egregiamente a indurre lo spettatore verso una riflessione educativa sul ruolo genitoriale. La coppia protagonista di The Prodigy giunge alla conclusione di volere un figlio dopo una lunga valutazione: lo sceneggiatore Jeff Buhler sottrae intelligentemente dalla pellicola i momenti riflessivi legati alla scelta filiale eppure ottiene una compiuta maturazione dei personaggi tramite brevi e sintetici dialoghi in cui emerge una dura sconfitta emotiva della maternità e della paternità.
La paura pre-genitoriale della coppia non riguarda problematiche economiche o difficoltà fisiologiche o dubbi legati al timore di non riuscire ad assolvere pienamente agli impegni di padre e madre; ma risiede nel terrore di un fallimento esistenziale: essere stato un figlio non amato e temere di diventare un genitore incapace di amare il futuro figlio.
J. Buhler affronta rapidamente questa tematica utilizzando in maniera accorta un materiale presente nella produzione extra-cinematografica di Stanley Kubrick, ovvero il romanzo The Shining di Stephen King e il soggetto di sceneggiatura A.I. (Artificial Intelligence) realizzato dopo la sua morte da Steven Spielberg: diversamente dall’omonima pellicola il romanzo di S. King si sofferma a lungo sul trauma infantile di Jack Torrence costretto a vivere con un padre dal temperamento volubile causato dall’alcolismo e analizza le conseguenze del passato del personaggio divenuto a sua volta violento sia come padre in ambiente domestico sia come insegnate in contesto professionale; John Blume (il padre del piccolo Miles in The Prodigy) possiede le medesime cicatrici e dimostra di cadere facilmente in atteggiamenti di violenza fisica e verbale se pressato dall’indiretta malvagità del figlio sia in casa in presenza della moglie sia a scuola davanti a una classe intenta ad ascoltare una lezione di matematica.
In uguale maniera la presa di coscienza della sconfitta della propria figura genitoriale emerge nel topos fiabesco dell’abbandono, una scelta narrativa cara a Pollicino di Charles Perrault e a Hänsel e Gretel dei fratelli Grimm: il parallelismo della scena in automobile tra A.I. e The Prodigy presenta una commozione che maschera un inquietante disagio da parte di un genitore sconfitto e inerme di fronte al proprio figlio.
J. Buhler affronta con intelligenza il tema genitoriale anche da un punto di vista terapeutico e da un punto di vista clinico, collegando il primo argomento con la pellicola The Exorcism di William Friedkin e il secondo con l’opera Shock di Mario Bava. N. McCarthy ha affermato in un’intervista la propria ammirazione per i due film precedentemente citati come si evince in questi estratti di cui riporto una traduzione:
«The other film that was the big reference for [The Prodigy] was The Exorcist. There’s a scene in the bathtub when she [Sarah] is shampooing Miles’ hair and he says, ‘Mommy, what’s wrong with me?’ That’s exactly what she [Regan] says in The Exorcist – (Un altro film di grande riferimento per The Prodigy è stato L’esorcista. C’è una scena nella vasca da bagno quando [Sarah] sta lavando i capelli di Miles e lui le chiede, ‘Mamma, cosa c’è che non va in me?’. Questo è esattamente ciò che [Regan] dice in L’esorcista)».
«He [Mario Bava] does this scare where this little boy seems to transform into a man in front of your eyes. When I read Jeff’s script for the first time, I drew a line between the world of The Prodigy and the world of that movie Shock, which has a kind of adjacent, similar story. I actually had my DVD of the movie and showed it to the three actors and said, ‘We’re going to re-create this.’ – ([Mario Bava] crea il terrore quando il bambino sembra trasformarsi in un uomo di fronte ai tuoi occhi. Quando ho letto la sceneggiatura di Jeff per la prima volta ho tracciato una linea tra il mondo di The Prodigy e il mondo del film Shock che si presenta come un adattamento, come una storia simile. Avevo anche il DVD del film, l’ho mostrato ai tre attori e ho detto: ‘Noi rifaremo questo’)».
La bravura del regista non emerge soltanto dalla cura cinefila attraverso cui rende omaggio al dialogo di W. Friedkin e alla scena del corridoio di M. Bava; N. McCarthy aiutato da J. Buhler riesce a effettuare il passaggio dall’imitatio all’aemulatio tramite un’ottima riflessione metacinematografica che coinvolge sia L’esorcista sia Shock. The Prodigy sposta la tematica orrorifica della possessione demoniaca su un piano metafisico tramite il concetto della reincarnazione esposto nel film dal personaggio di Arthur Jacobson.
Il lavoro effettuato in sceneggiatura sul personaggio di Arthur è estremamente piacevole perché presenta una dettagliata chiave interpretativa della pellicola: il cognome Jacobson è ripetutamente pronunciato ogni volta che il personaggio è in scena e rende possibile allo spettatore intuire il dramma che Sarah deve affrontare nei confronti del piccolo Miles perché racchiude l’onomastica dedica alla psicanalista statunitense Edith Jacobson che ha incentrato i suoi studi sul tema del fallimento e della delusione del ruolo materno in relazione al dolore e alla frustrazione che una madre può affrontare nell’infanzia freudiana di un figlio. Il personaggio di Arthur possiede in sé anche una rilettura e una rifunzionalizzazione della figura dell’esorcista attraverso l’approccio terapeutico dell’antipsichiatria e tramite la prassi dialogica di «Dimmi il tuo nome!» presente in ogni film basato sul tema della possessione demoniaca.
Il metodo non convenzionale dell’antipsichiatria che Miles affronta per risolvere il proprio incubo ritorna nella riflessione clinica tra The Prodigy e Shock e riguarda il tema del complesso edipico. La visione orrorifica del complesso di Edipo presente nelle due pellicole è meravigliosamente opposta. In Shock il piccolo Marco guidato dall’influsso spiritico del defunto padre nutre nei confronti della madre Dora un atteggiamento prettamente erotico: M. Bava e il figlio Lamberto Bava riescono ad analizzare il rapporto madre/figlio sfruttando in sceneggiatura la sovrapposizione tra il personaggio di Marco e il padre deceduto; questa sovrapposizione permette di utilizzare in maniera approfondita la tematica del complesso edipico sotto molte sfumature di contesto narrativo (dall’allusione incestuosa di Bruno a Dora e dalle occasioni più semplici come i giochi in giardino e il corteggiamento floreale che Marco dedica a Dora alle occasioni maggiormente morbose come il feticismo mostrato dal figlio verso gli indumenti delle madre e i momenti in cui il primo spia la seconda in bagno).
In The Prodigy è invece presente un ribaltamento del complesso edipico, possibile attraverso una differente sovrapposizione di personaggi: nel corpo e nella mente di Miles è presente un personaggio estraneo al contesto erotico della famiglia; seguendo la provocatoria definizione di inizio anni ’70 di Gilles Deleuze e Félix Guattari in Miles questa diversa struttura narrativa permette la creazione di un Anti-Edipo. Risulta estremamente inquietante una scena che sintetizza questo capovolgimento edipico: in una scena notturna, in assenza del padre, Miles accarezza a letto la schiena della madre rivelando una profonda ambiguità orrorifica perché l’erotismo edipico ha lasciato posto alla violenza antiedipica.
Il reparto del trucco e dei costumi segue con logica il ragionamento sul tema della reincarnazione offrendo un semplice ma efficace contributo, lavorando sul personaggio di Miles sia a livello fisico (i direttori del montaggio Tom Elkins e Brian Ufberg a inizio pellicola utilizzano un buon montaggio a intreccio, alternando una scena di decesso e una scena di nascita, che culmina in un pregevole parallelismo visivo tra due corpi nudi che presentano medesime tracce di sangue lasciate rispettivamente da proiettili di morte e da una placenta di vita.
Il regista impiega anche frequenti inquadrature in dettaglio sulle unghie, sui denti e sugli occhi di Miles rivelando particolari lontani dal candore iconico di un bambino) sia a livello metaforico (il tema pirandelliano della maschera è sfruttato attraverso la festa di Halloween durante la quale Miles mostra un curato body painting da scheletro; N. McCarthy nella propria filmografia si era precedentemente soffermato sulle radici ancestrali delle tradizioni folcloristiche e sul rapporto festa/pericolo nell’opera antologica Holidays scrivendo e dirigendo l’episodio Easter in cui reinterpreta in ottima chiave metafisica e cristologica la creatura del coniglietto pasquale).
Il tema del dualismo di Miles è in aggiunta affrontato tramite scelte registiche che presentano personaggi visivamente frazionati da oggetti di scena: i volti dei personaggi sono inquadrati diametralmente divisi tramite porte e mura di casa e da ombre e scenari fortemente cupi; a livello concettuale contribuiscono – quasi ironicamente – alla sensazione di divisione del campo visivo dell’inquadratura la lezione di matematica sulle frazioni cui Miles assiste in modo distrattamente presente e la scenografia degli ambienti non domestici caratterizzata dal predominio di luce e dall’aperta degli spazi tramite la costante presenza di tavoli, porte e pareti interamente in vetro.
Estremamente piacevole la prova attoriale di Miles interpretato da Jackson Robert Scott perché l’attore riesce a somatizzare un elemento narrativo fondamentale in The Prodigy, il ruolo anatomico delle mani: inquietantemente splendido è il modo elegante e gentile con cui Miles utilizza le proprie mani nell’atto di impugnare gli oggetti (dall’infantile innocenza quasi a non reggere il peso di un martello, alla raffinatezza con cui impugna una chiave regolabile per bulloni quasi ad accarezzarne il manico, al freddo cinismo di un coltello quasi a reggere il confronto con Patrick Bateman in American Psycho di Mary Harron).
Il bambino-prodigio in psicologia è talvolta destinato (come accade dalle ricerche e dagli studi di David Henry Feldman) a perdere il proprio talento da adulto o – anticipatamente – nella fase di crescita adolescenziale. D. H. Feldman sottolinea con cautela il dato riguardante la capacità di alcuni bambini prodigio di possedere ricordi pre-natali collegati principalmente a sensazioni di paura avvertite durante il periodo della gravidanza della loro madre; attraverso questa cautela N. McCarthy critica, a inizio pellicola, l’atteggiamento genitoriale di Sarah e John nel momento in cui esaltano l’assenza di normalità di Miles perché felici dell’intelligenza non comune del loro figlio. La coppia commette il medesimo errore analizzato nella pellicola We Need to Talk About Kevin (…e ora parliamo di Kevin) di Lynne Ramsay: il piccolo Kevin presenta medesima intelligenza e medesimo sguardo e medesima predilezioni per le armi bianche di Miles.