Prendi David Cronenberg, Brian Yuzna e Alfred Hitchcock (scomodando anche Stanley Kubrick e un po’ dello Zemeckis di La morte ti fa bella), uniscili alla superba regia e allo sguardo lucido di Coralie Fargeat – che ragiona sempre sul (fe)male gaze – e ottieni questo assurdo e a tratti grottesco body horror che è The Substance.

Trama

Elizabeth Sparkle (Demi Moore) è un’attrice, con tanto di stella sulla Walk of Fame, che vede la sua carriera interrompersi forzatamente. Il motivo? Ha raggiunto i cinquanta anni e si sa che, nel mondo dello spettacolo, invecchiare non è concesso. Mentre la sua casa di produzione si mette alla ricerca di una ragazza “bella, giovane e vivace” per sostituire Elizabeth nel suo programma di fitness, la protagonista viene a conoscenza di una sostanza sperimentale in grado di sbloccare il DNA di chi se la inietta e creare una versione di sè più giovane, più bella, più perfetta. C’è solo una regola da rispettare: mantenere l’equilibrio di sette giorni per ciascuna. Allo scadere di ogni settimana, infatti, bisognerà effettuare lo scambio con l’altra sé. Elizabeth, convinta di non avere più nulla da perdere, decide di sperimentare la sostanza, e dalla sua schiena fuoriesce la sua versione migliore, Sue (Margaret Qualley). Sue ha l’appeal perfetto per diventare una star e, infatti, sarà proprio lei a prendere il posto di Elizabeth nel programma tv. Ma l’equilibrio sarà difficile da rispettare.

Uno sguardo sui corpi

Coralie Fargeat ci ha regalato un esordio strabiliante con Revenge, film manifesto del #MeToo e del female gaze, in cui viene operato un cambio di prospettiva da manuale. Con The Substance, suo secondo lungometraggio, fa qualcosa di simile: mette al centro il corpo femminile, un corpo su cui tutti credono di poter mettere bocca. Mentre in Revenge il personaggio di Jennifer (Matilda Lutz) riprende possesso del proprio corpo e lotta per ottenere la sua vendetta, trasformandosi in una Rambo con gli orecchini rosa a stella e il fucile, in The Substance il corpo è un oggetto scintillante da mettere sotto i riflettori, un prodotto che deve avere la forma giusta, altrimenti nessuno lo vorrà, inclusa chi ci vive dentro. Da qui l’insistenza sul corpo di Sue con infinite inquadrature ravvicinate di ogni centimetro, ogni muscolo, un’ossessione per chi guarda ma anche per Elizabeth stessa che il suo corpo da cinquantenne, al contrario, inizia a non volerlo più vedere. Non si tratta più di una feroce riappropriazione del corpo, per sottrarlo all’oggettificazione dello sguardo maschile, ma di un tentativo di rientrare in quell’oggettificazione, perché ci si è così dentro da non saperla riconoscere, rifiutare e smantellare.

La bellezza è tutto

Quando finisce la settimana di Sue e inizia quella di Elizabeth, quest’ultima sente di star sprecando del tempo che la sua versione giovane potrebbe sfruttare meglio. La società non solo impone standard di bellezza irraggiungibili, ma ci fa anche credere che, se non li possiedi, allora la tua vita vale poco. E così ci affanniamo a rincorrerli, a non averne mai abbastanza. Elizabeth inizia a sentirsi inutile, quasi indegna di vivere, al punto che spreca la sua settimana a mangiare e guardare la tv. Questo provoca la rabbia di Sue che si sente derubata, quasi come se lei avesse maggiore diritto alla vita solo per il fatto di essere bella e giovane. L’equilibrio inizia così a incrinarsi: Sue ruba qualche ora in più a quelle che le spettano e il furto avrà delle conseguenze sul corpo di Elizabeth. Elizabeth e Sue, che dovrebbero essere la stessa persona – “ricorda: tu sei una” recitano le istruzione della sostanza – iniziano così a diventare sempre più aliene l’una all’altra; iniziano ad odiarsi reciprocamente, nello spirito della buon vecchia rivalità femminile.

L’intertestualità e il rigetto

The Substance è un film che, come già detto in apertura, dialoga con opere del passato. Attinge da queste, le rielabora, generando significati nuovi e una satira spietata verso il sistema Hollywood e non solo. La natura postmoderna del film sta in questa intertestualità, che focalizza l’attenzione sulla natura artificiale del concetto di bellezza, che è socialmente costruito. Fargeat smaschera e disseziona la questione, ricordandoci che la materia è soggetta a deperimento – un processo naturale che si prova a rallentare a tutti i costi, con la speranza addirittura di fermarlo. La vecchiaia fa infatti parte della sfera di ciò che Julia Kristeva definisce abiezione: si tratta della sensazione di orrore che nasce dalla perdita di confine tra il sé e l’altro. Il corpo che invecchia è concepito come qualcosa di altro rispetto al sé, è qualcosa che si rigetta, qualcosa che sembra non appartenerci. The Substance critica questo culto dell’eterna giovinezza che spinge a rifiutare e temere i segni del tempo; ci ricorda che, al contrario, noi siamo una.

ALLERTA SPOILER

E infatti, nel finale, si torna all’unità. Ma non è un lieto fine, una sintesi dopo la lotta, perché si è raggiunto il punto di non ritorno. È una fusione mostruosa, una materialità portata all’esasperazione che il pubblico non accetta ma rifiuta con ferocia e violenza. Quando Monstro Elisasue si presenta sotto i riflettori con un abito principesco, chi aspettava trepidante la bella e perfetta Sue si ritrova davanti un orrore che non soddisfa le aspettative, ma le distrugge e ci vomita sopra – letteralmente. Il giocattolo si è rotto e Elisasue, vittima e carnefice allo stesso tempo, rigetta a sua volta tutto su chi, volente o nolente, sostiene e sostenta il sistema.


Fargeat confeziona uno dei film più sorprendenti degli ultimi tempi. Scritto magistralmente – la sceneggiatura ha vinto a Cannes – con un’estetica pop dai colori sgargianti, spazi che si allungano o restringono per ingabbiare la protagonista, The Substance è un instant cult e, a mio modesto parere, il film dell’anno.

Classificazione: 5 su 5.

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