22 Novembre 1990, Civic Center di Hartford (Connecticut, USA). La World Wrestling Federation sta svolgendo le Survivor Series, uno dei pay-per-view più importanti fra quelli proposti annualmente dalla federazione. Un misterioso wrestler sta per fare il suo debutto, per prendere parte a uno dei tanti match a squadre organizzati per l’evento.
Nell’arena risuona una melodia funebre e The Undertaker fa il suo ingresso.
Abbigliamento scuro, passo lento e regolare, sguardo imperscrutabile. Bastarono questi pochi ingredienti per fare capire al pubblico di stare assistendo a qualcosa di diverso. In tal senso, è iconica l’inquadratura di due ragazzi in piedi a bordo ring e completamente ammutoliti da quell’inquietante energumeno (qui il video).
22 Novembre 2020. Sono passati 30 anni e The Undertaker sta facendo il proprio discorso di ritiro. Sono stati tre lunghi decenni, in cui il Deadman si è consolidato come una delle figure più rappresentative e amate dello sport-spettacolo, arrivando a trascenderne i limiti e a divenire una vera e propria icona della cultura popolare.
Cerchiamo le ragioni dietro a tale successo.
GLI INIZI
Nei primi anni ’90, la World Wrestling Federation proponeva un modello di show fortemente incentrato sulle gimmick. La gimmick è il personaggio, il modello comportamentale che l’atleta segue nel rapportarsi al pubblico e nell’affrontare gli avversari. In quel periodo le gimmick abbondavano: c’erano, per citarne alcuni, l’eroe americano (Hulk Hogan), il milionario arrogante (Ted DiBiase) , il guerriero tribale (The Ultimate Warrior), lo scozzese sfrontato (Roddy Piper). Con il loro personaggio, i wrestler riuscivano ad attirare l’attenzione del pubblico, facendosi amare o odiare.
La gimmick di Undertaker nacque come quella di un becchino di una città di frontiera del Vecchio West. Inizialmente si pensò di associargli il nome proprio Kane, sia per aggiungere una sfumatura di matrice biblica (Caino), sia per ricalcare i nomi dei killer più rappresentativi del cinema slasher (Jason, Freddy, Michael). Non è dato sapere se sulla scelta influì anche il fatto che il più celebre interprete di Jason Voorhes, Kane Hodder, portasse proprio quel nome. Si decise tuttavia di privilegiare la semplicità e il nome fu accantonato dopo pochissime apparizioni.
La WWF avrebbe in seguito utilizzato il nome Kane per un’altra gimmick di matrice horror (il fratellastro di The Undertaker), ma questa è un’altra storia.
La gimmick di Undertaker si distingueva da tutte le altre non solo per l’aspetto, ma anche per il modo di lottare. Il Becchino utilizzava uno stile per lo più lento e metodico, interrotto da brusche accelerazioni in momenti specifici del match. Il pubblico non era abituato ad avere di fronte un atleta che unisse a un’altezza considerevole (quasi 2,10 m.) una tale scioltezza nei movimenti. Dietro a ogni sua azione sembrava esserci una strategia, nulla era lasciato al caso. E, soprattutto, nulla sembrava arrestarlo. Per tornare al parallelismo col cinema slasher, The Undertaker poteva essere considerato un “Michael Myers alternativo”, che aveva deciso di sfogare la propria ferocia tra le corde del ring anzichè fra le strade di Haddonfield.
Pugni, calci, bracci tesi. I colpi potevano anche andare a segno, ma lui non andava giù (nel gergo della disciplina, non vendeva le mosse). Anche quando sembrava essere finito al tappeto, il Becchino si rialzava, ripetendo esattamente il sit-up di Myers nel film del 1978.
BEARER & TAKER
Non passò molto tempo prima che il becchino western si trasformasse in un essere ultraterreno, il Deadman. La linea di demarcazione può essere tracciata dall’arrivo di un ometto basso e paffuto: William Moody, in arte “Paul Bearer”. Bearer divenne il manager di Undertaker. La figura del manager, nel pro-wrestling, è estremamente importante. E’ il manager a seguire l’atleta verso ring, ad aiutarlo a vincere (anche ricorrendo a scorrettezze) e ad accompagnarlo nei promo (i segmenti parlati). Bearer svolgeva queste mansioni alla perfezione, con un eloquio e un portamento rimasti nella storia tanto quanto le imprese del suo assistito (qui un piccolo esempio). C’era però un ulteriore elemento che avrebbe permesso alla coppia Bearer & Taker di entrare nella leggenda: un’urna.
Quella di portare con sé un’urna fu un’idea di Moody/Bearer stesso, che sentiva l’esigenza di tenere qualcosa in mano durante il lasso di tempo a bordo ring. Fu molto facile per lui procurarsela, avendo davvero lavorato nel campo delle onoranze funebri.
“So, I had to have something in my hands and, all of a sudden, a urn popped in my head”.
William “Paul Bearer” Moody
Durante gli incontri, quando Bearer alzava l’urna, sembrava che un potere misterioso e ultraterreno raggiungesse The Undertaker, rinvigorendolo.
Che cosa si celava al suo interno? Non venne mai del tutto chiarito. In un caso fu mostrata contenere delle ceneri, in un altro ne uscì una nebbia verde, altre volte sprigionò una luce accecante.
Durante i segmenti parlati,a far da contrasto con la cantilena stridula delle parole di Bearer, era la voce cavernosa del Deadman. Nelle parole del Becchino, ogni singolo incontro veniva elevato a qualcosa di più di una semplice disputa su un ring. The Undertaker sembrava distaccarsi dalla logica della maggior parte degli altri personaggi, incentrata sul successo o la ricerca di titoli. I suoi promo erano dei sinistri moniti in cui solitamente prometteva la distruzione dell’anima dei propri avversari (“Rest in Peace!”). Ciò valeva sia quando si trovava a interpretare la parte del buono (babyface) sia quando vestiva i panni del cattivo (heel). Ecco perché la gimmick di The Undertaker era, a quell’epoca, un caso unico: non voleva farsi amare e non voleva farsi odiare. Il suo unico scopo era portare avanti la crociata dell’Oscurità contro la Luce.
Tale atteggiamento era ravvisabile in tutti gli aspetti del personaggio. Un esempio calzante è dato dal modo con cui il Becchino schienava gli avversari. Nel linguaggio del pro-wrestling, si ha uno schienamento ogni in cui si tiene l’avversario al tappeto per un conteggio da parte dell’arbitro. Dopo avere colpito un rivale con una delle sue mosse caratteristiche, The Undertaker era solito mettergli le braccia sul petto come se si trattasse di un cadavere. Inoltre, durante lo schienamento stesso, il Deadman ruotava gli occhi all’indietro.
DIGGING HOLES AND TAKING SOULS
La figura di The Undertaker è strettamente legata a una tipologia particolare d’incontro: il casket match. In questo tipo di contesa, è possibile vincere soltanto mettendo l’avversario all’interno di una bara e chiudendo il coperchio. Il casket match non fu inventato dal Becchino ma, per ovvi motivi, fu lui a rendere famosa questa tipologia d’incontro. Ancora più inquietante, ma molto meno utilizzato, era il body-bag match. A differenza di una bara, veniva utilizzato un sacco simile a quello in cui vengono posti i cadaveri che, nell’immaginario filmico, è spesso associato con dei crimini violenti. Fu invece cucito su misura per il personaggio il buried alive match. Scopo dell’incontro era quello di gettare l’avversario in una fossa lontana dal ring…e seppellirlo vivo.
SAPERSI RINNOVARE
Nel corso degli anni,The Undertaker ha saputo inoltre rinnovare la propria gimmick senza mai snaturarla. Verso la fine degli anni ’90, la World Wrestling Federation, cercò uno stile più crudo e realistico (la cosiddetta Attitude Era). In questo frangente, il Deadman divenne capo di una setta chiamata The Ministry of Darkness, chiaramente ispirata a un immaginario esoterico/satanico. Con un look rinnovato e, se possibile, ancora più sinistro, The Undertaker fu coinvolto in diversi segmenti dal grande impatto scenico. In uno di questi, arrivò a squarciarsi una mano e a fare bere il proprio sangue a Dennis Knight, futuro adepto della setta. In un altro, forse il più famoso, crocefisse Stone Cold Steve Austin, il wrestler più celebre e amato all’epoca.
Nei primi anni 2000 si assistette al cambiamento più radicale della gimmick di The Undertaker, che perse i propri aspetti più dark per trasformarsi in quella di un biker. In questa fase della propria carriera, definita la fase “American Badass”, il Deadman mantenne soltanto alcuni elementi di base dal periodo precedente (es. le mosse più celebri) per sperimentare un modo più diretto ed essenziale di rivolgersi al pubblico.
Dal 2004 al 2020 si tornò alla classica gimmick del Deadman.
L’ENTRATA
Grandissimo contributo al successo di The Undertaker lo ha dato poi Jim Johnston, compositore della theme con cui il Becchino incedeva verso il ring. Così come per la gimmick, anche il brano ha subito dei riarrangiamenti nel corso degli anni senza mai distaccarsi dal proprio nucleo di melodia funebre.
“I thought […] it should be something sad and mournful”
Jim Johnston
L’entrata in scena del Deadman è stata sempre oggetto di ironia per la sua estrema durata, ma non si può dire che non fosse d’effetto. Il fumo, le luci soffuse, le fiamme: per qualche minuto sembrava che ogni arena sportiva venisse trasformata in un limbo ultraterreno.
L’UOMO
L’ultimo ingrediente di questa formula vincente è anche il più importante: Mark Calaway, l’uomo dietro The Undertaker. C’era stato un tempo in cui si chiedeva ai wrestler di vivere la gimmick anche al di fuori del ring, specialmente nel rapportarsi coi giornalisti e col pubblico. Col passare degli anni però tale esigenza è stata messa da parte, di fronte a un mondo sempre più connesso e a un pubblico sempre più smaliziato. Non fu così per Calaway, che si dedicò al proprio personaggio fino agli ultimi anni della carriera. Tutto ciò che si sapeva di lui veniva dagli aneddoti dei colleghi, che raccontavano di un uomo introverso, umile e dedito al proprio lavoro. Quando The Undertaker appariva in pubblico, non era possibile determinare quale fosse la linea di demarcazione fra la gimmick e l’essere umano. Esilarante e bizzarra è un’intervista del 1995, in cui Calaway tentò di rispondere a diverse domande personali utilizzando la gimmick del Becchino. Il periodo American Badass fu di fatto l’unico a permettere di avere uno scorcio su ciò che stava dietro dietro al cappotto nero, il trucco e il cappello. Ciò è andato avanti fino al 2018, anno a partire da cui Mark Calaway ha iniziato ad accettare interviste per parlare della propria carriera. Ne è emersa una persona semplice e autoironica, senza dubbio fiera della propria scelta di vita. Il mestiere del pro-wrestler è purtroppo fatto anche di ombre, e Calaway non è esente da alcuni scheletri dell’armadio, ma continua comunque a essere ricordato da molti degli ex-colleghi come una delle persone più disponibili e professionali fra quelle che hanno calcato il ring negli ultimi decenni.
Nel 2020 è stato realizzato il bellissimo documentario The Last Ride, in cui Calaway riflette sulla propria carriera come The Undertaker (focalizzandosi soprattutto sugli ultimi anni).
L’unico rimpianto è quello di non avere mai visto la figura di The Undertaker all’interno di un film horror vero e proprio. Lo scorso Ottobre è comunque uscito su Netflix il film interattivo “Escape the Undertaker”.
Un anno fa la carriera di The Undertaker è giunta al proprio (meritato) capolinea. Probabilmente non ci sarà mai un nuovo Deadman. Probabilmente, al giorno d’oggi, una gimmick del genere neanche funzionerebbe (benché esistano comunque personaggi orrorifici, come The Fiend). Ciò che è certo, tuttavia, è che l’eredità del Becchino vivrà per sempre.
Il Male non riposa in pace.
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