Eilean Mòr, Isole Flannan in Scozia. 1900, anno della reale scomparsa dei tre custodi del faro Thomas Marshall, James Ducat e Donald MacArthur.
In The Vanishing, il danese Kristoffer Nyholm torna in regia ad affrontare nuovamente la nebbia di un paesaggio isolano, la presenza scenica di un uomo avvolto da demoni interiori maggiormente virili della muscolatura del proprio corpo e il tema nautico e marittimo associato all’avidità del potere: dopo avere diretto Tom Hardy nell’isola di Nootka pronto ad affrontare le insidie della Compagnia britannica delle Indie orientali nella serie televisiva Taboo, K. Nyholm guarda Gerald Butler approdare sulla deserta Eilean Mòr lentamente preda sotto onde di avidità giunte dal mare.
La sceneggiatura di Celyn Jones e Joe Bone è elegantemente intelligente perché rinuncia a qualsiasi versione sulla scomparsa dei tre custodi del faro legata a misteri di natura esoterica e sovrannaturale, incentrandosi su una psicologica e spaventosa caduta esistenziale di uomini isolati nel loro senso di colpa e avvolti da una natura che è indifferente alla loro tragica paura di smarrire identità ed empatia perché corrotte dalla ferocia e dalla crudeltà.
Ogni comparto tecnico della pellicola accompagna gli atti da tragedia (definibili anche come parti metriche da ballata marinaresca) in cui idealmente è divisa la trama. A partire dal “prologo” la scenografia è romanticamente al servizio della sceneggiatura: il regista inaugura la propria opera inquadrando lentamente due barche ormeggiate in un molo; entrambe riportano il loro nome dipinto sul legno di prua. Il regista inquadra il nome della barca più vicina al molo, Jules.
Jules Verne è lo scrittore il cui nome è maggiormente legato ai misteriosi racconti di mare; i tre custodi vivranno sulla propria pelle la salsedine e l’umidità di un faro in giorni vissuti con lo schematismo di una macchina: il paesaggio e la quotidianità ricordano la potenza e l’indifferenza umana della Natura in L’isola misteriosa e l’esasperata e ambiguamente folle routine del capitano Nemo nell’isolamento del sottomarino Nautilus in Ventimila leghe sotto i mari.
Per un uomo di mare il nome della propria imbarcazione possiede una profonda affinità emotiva. Alcione è il meraviglioso nome della barca di Porco Rosso nell’omonimo film di Hayao Miyazaki (un nome che contiene in una singola scelta di battesimo l’amore del regista nipponico verso il senso di libertà donato dall’attività del volare: Alcione, la mitica figlia di Eolo, muore suicida per annegamento in mare e dopo la morte è mutata per amore divino in un uccello del mare libero di librarsi su immense distese marine).
Seguendo questa motivazione puramente emotiva, a fine pellicola amaramente sorrido a ricordare la scelta – pienamente romantica da ballata inglese e drammatica da tragedia shakespeariana – del personaggio di James Ducat interpretato da G. Butler perché la sua caduta esistenziale percorre in sceneggiatura tappa per tappa la fine del personaggio di Catherine in Jules e Jim di François Truffaut (la porta chiusa a chiave per evitare che qualcuno possa evitare la morte, un tentato omicidio, il dialogo sulla pazzia e un suicidio in acqua per annegamento trascinando qualcun altro con sé). A termine del ménage à trois presentato nel film di F. Truffaut il personaggio di Jules resta muto in scena ad assistere alla morte di Jim e Catherine in una solitudine che conduce veloce all’ultimo fotogramma della pellicola.
L’intelligenza dei due sceneggiatori insiste nell’allontanare dalla pellicola qualsiasi elemento del mistero sottolineando nella scena introduttiva del personaggio di James Ducat un saldo rapporto di stima e fiducia nei confronti delle istituzioni predisposte alla tutela dei custodi durante il loro soggiorno sull’isola: NLB (Northern Lighthouse Board/Consiglio per i fari del nord) e Trinity House – gli enti predisposti a tale tutela – sono nominati a inizio della pellicola e nella parte centrale della trama in una visione così positiva da eliminare qualsiasi sospetto complottistico e misterioso alla vicenda narrata.
Al piacevole lavoro del comparto della scenografia si aggiunge anche l’attività del reparto dei costumi e del trucco: il regista decostruisce la virilità cinematografica di G. Butler sia in momenti sereni (il rapporto scherzoso con il personaggio di Donald McArthur) sia in momenti drammatici. A livello visivo l’attore ricorda iconograficamente – guance, barba e maglione – Ernest Hemingway nell’ultimo periodo della sua biografia prima del suicidio quando lo scrittore immagina se stesso in un alter ego marittimo affidando alle stampe l’ultima opera da lui partorita, Il vecchio e il mare; e per drammaticità familiare e fisiognomica scenica ricorda il meraviglioso guardiano del faro Conor in Song of the Sea (La canzone del mare) di Tomm Moore.
Il lavoro di decostruzione della virilità cinematografica continua in sceneggiatura e raggiunge il culmine nella scrittura scenica di un dialogo tra James Ducat e Thomas Marshall in cui emerge la meravigliosa interpretazione attoriale di G. Butler. James Ducat reagisce all’evento-culmine del proprio dramma in un monologo teatrale di stampo shakespeariano: l’attore annuncia il proprio tormento rivolgendo uno sguardo immobile e apatico verso il mare senza battere ciglia e muovendo meccanicamente il corpo come in una plateale posa da palcoscenico mentre indica un secchio vuoto che illusoriamente crede pulluli di granchi; James Ducat come Lady Macbeth nella trasposizione cinematografica di Macbeth di Roman Polański: la donna pulisce le sue mani linde che illusoriamente crede macchiate di sangue con meccanica e ripetitiva gestualità e sguardo fisso nel vuoto, perdendo lucidità a causa del dolore e del rimorso per un’atroce azione compiuta.
L’interpretazione di G. Butler sostiene i momenti di maggiore virtuosismo tecnico del regista: le corse in scogliera dell’attore sono seguite da una telecamera a mano che evoca le onde del mare e le procelle interiori dell’animo del personaggio; il risultato di un omicidio è ripreso con composizione geometrica; i momenti di ambiguità morale dei tre protagonisti si intuiscono tramite un montaggio veloce basato su inquadrature per sottrazione (come nel passaggio da un singolo gabbiano morto alla moria in campo aperto dei volatili, da un cadavere spostato dal vento alla minestra spostata da un cucchiaio, dalla vista della sirena acustica alla visuale del faro in un confronto ambiguo con La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock).
Piacevole è la fotografia di Jørgen Johansson tramite la tecnica del controluce con la quale sono fotografati i custodi ripresi nella loro ronda sulla scogliera e il blu del mare che muta colore in base alla sua pericolosità o all’indifferenza – il mare è in tempesta quando non è coinvolto nelle azioni tragiche dei personaggi; invece risulta placido e teneramente funebre quando accoglie direttamente i destini dei tre guardiani del faro, diventando ossimorico e quasi assente nel finale perché assiste silente alle sorti umane – sembra essere il mare in Ulysses (Ulisse) di James Joyce: «Guarda il mare, non gli importa delle offese».
L’importanza dei nodi per un marinaio è fondamentale. Il regista ricorda allo spettatore l’ambiguità umana nell’utilizzo di un oggetto che riesce a essere garante di utilità (una corda può essere utilizzata per spolpare un granchio, assicurare un argano, calare e issare un uomo in pericolo di vita) e al tempo stesso strumento di morte (la piratesca inghinatura). K. Nyholm gioca con sagace ironia cinematografica sul tema dell’equivoco anche a livello lessicale (Thomas Marshall prega in ricordo della famiglia prematuramente persa; una dei figli è la piccola Freya: il morigerato uomo prega la medesima Freya divinità norrena dell’oro capace addirittura nel pianto di evocare lacrime dorate) e metacinematografico (James Ducat descrive la tragedia vissuta con il termine maledizione, un’espressione tipica di molti romanzi legati ai misteri dei mari; e ricorda al giovane Donald MacArthur di proteggersi dal mercurio presente nel sistema di illuminazione del faro perché capace di portare alla follia anche il custode più razionalmente saldo.
Il regista insiste più volte nel corso della trama sulla presenza del metallo con la stessa ambiguità utilizzata da Robert Eggers in The VVitch – il mercurio che rese pazzo il Cappellaio in Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll possiede la stessa funzione narrativa del fungo Claviceps purpurea capace di infettare il grano e indurre ad allucinazioni chi credeva di assistere a un evento stregonesco). E se tutto fosse una sciarada come accade all’uomo di mare de Il marinaio di Fernando Pessoa?, no: non c’è mistero nell’affermare che The Vanishing sia un’ottima pellicola.