Palma d’oro al 75esimo festival di Cannes, la seconda per il regista svedese Ruben Östlund, e presentato in anteprima al festival del cinema di Roma, Triangle of Sandess arriva nelle sale italiane il 27 ottobre. Tra i titoli più attesi dell’anno, diretto da uno dei registi più significativi del panorama cinematografico contemporaneo e un cast formato da Harris Dickison, Charlbi Dean e Woody Harleson, una parabola satirica e dissacrante che colpisce dritta al cuore della nostra contemporaneità.
Il regista, prima della storia.
Quando parliamo di Ruben Östlund, dobbiamo essere pronti a tutto: tra i registi più originali e controversi dei primi anni 2000, la carriera del cineasta svedese ha vissuto nell’ultima manciata di anni una vigorosissima ascesa.
Ostlung nasce in Svezia, ha 48 anni e i suoi ultimi tre lungometraggi si sono portati a casa dal Festival di Cannes rispettivamente un Certain Regard con Forza maggiore nel 2014, la Palma d’Oro con The Square nel 2017, per riconquistarla nuovamente quest’anno con Triangle of Sadness.
Una tripletta ottenuta in meno di una decade all’interno di uno dei maggiori festival di cinema al mondo lo proietta tra l’olimpo dei più iconici cineasti dei nostri giorni: dallo stile unico e irriverente, il le immagini di Östlund sono caratterizzate da un linguaggio indagatore, dissacrante, satirico su più livelli. Triangle of Sadness è il suo primo lungometraggio girato in lingua inglese, conta un budget di più di 15 milioni di dollari e un lavoro di pre produzione durato tre lunghi anni.
Ma entriamo nel vivo del suo ultimo lungometraggio, partendo proprio dall’emblematico titolo attraverso le parole del regista:
Il titolo si riferisce a un termine usato nel mondo della bellezza, […] alla ruga in mezzo alle sopracciglia, quella che in svedese chiamiamo “la ruga dei guai”, perché indica che nella vita hai dovuto affrontare tante battaglie… Pensavo che questa scelta dicesse qualcosa della nostra epoca e della nostra ossessione per le apparenze.
La storia
Carl (Harris Dickinson) e Yaya e (Charlbi Dean), sono una coppia di modelli che la vita sembra aver graziato con tutto ciò che oggi aneliamo: bellezza, soldi, popolarità. Alla luce di questa, i due sono invitati a soggiornare a bordo di un lussuosissimo yacht. Ma nessun pasto è gratis in natura, e nella catena alimentare della contemporaneità Carl e Yaya hanno la loro funzione a bordo della nave: creare contenuti glamour e più che mai “instagrammabili” per fare pubblicità, in qualità di web influencer.
A comporre il resto della “fauna” della lussuosa nave, guidata dal Capitano (Woody Harrelson), un eccentrico gruppo di “veri” super ricchi: oligarchi russi in viaggio con la moglie e l’amante, sviluppatori di app e famosi produttori di armi. Naturalmente il tutto amalgamato dalla controparte non elitaria: i gestori della nave.
La traversata procede secondo i piani: sfarzo, lusso e dinamiche di facciata mantengono gli equilibri settati fino a quel momento intatti.
Ma l’imprevedibile è in agguato: un inaspettato quanto grottesco naufragio costringe i passeggieri tutti – elitari e non, sotto la guida-non guida di un capitano fin troppo appassionato di liquori e socialismo – a sbarcare letteralmente in un luogo in cui ogni gerarchia sociale fino a quel momento stabilizzata verrà ora sovvertita.
Tre atti scanditi in altrettanti capitoli, governati dalle macro tematiche che il film snocciola: Carl e Yaya, l’emblema del successo, del dono, del desiderio; la bellezza usata per innalzarsi socialmente in un mondo basato sulle differenze di classe. La nave, un ambiente all’interno del quale queste differenze vengono sigillate, sottolineate e messe in atto nel pratico (ad eccezione della scena in cui Vera – la ricca compagna dell’oligarca – sembra profetizzare ciò che accadrà nella terza parte del film proponendo ai membri dell’equipaggio un momentaneo scambio di ruoli). E infine la terza parte, l’isola: la reale sovversione dei ruoli, il crollo dell’illusione, la disfatta del mondo “instagrammabile” e l’ingresso in una realtà dominata – forse – da nuove leggi.
Vecchi e nuovi ricchi
La visione del regista e sceneggiatore in Triangle of Sandess vuole, ancora una volta, isolare all’interno della sua narrazione una porzione precisa della nostra contemporaneità, per sbugiardarne i meccanismi, le falle, le ipocrisie che la governano.
La parabola satirica stavolta ha al centro il mondo della ricchezza, l’universo dei più abbienti (questo del resto già accadeva nel precedente The Square, declinato all’interno del mondo dell’arte contemporanea anch’esso dominato dai benestanti). Utilizzando come motore narrativo i possidenti della “nuova ricchezza” – i giovani modelli, gli influencer spesso al centro delle polemiche contemporanee in merito all’assenza del “sacrificio” nel loro mestiere – e coloro che invece sono ben stabilizzati all’interno del loro stato sociale.
È chiaro come per prima cosa (e, come vedremo, anche per ultima pensando alla struttura) il regista prenda in esame l’elemento della bellezza fisica come chiave d’accesso ad un nuovo mondo. Un mondo che non ci apparterrebbe ma che ci siamo conquistati perché grazie a una combinazione particolarmente fortunata dei geni, siamo attraenti. Questo sottolinea – e prevede – in maniera spietatamente efficace la volubilità dello stato sociale: grazie ad un piccolo elemento esterno come quello dell’aspetto fisico io ho ottenuto un nuovo posto nella catena alimentare.
Ma, altrettanto facilmente, posso perderlo grazie alla sovversione di un altro piccolo elemento: nel caso di Triangle of Sadness, questo si riferisce alla variabile dell’”ambientazione”, completamente sovvertita nel terzo atto del film.
Östlund però non si risparmia: i vecchi e i nuovi ricchi vengono gettati – grazie ad una sequenza particolarmente “fisica” destinata a diventare iconica all’interno della filmografia del cineasta e non solo – in un mondo che riporta l’uomo allo stato originario, all’interno del quale il valore dello stato sociale viene azzerato. Il regista immagina un nuovo punto di partenza per smascherare, come nel perfetto stile del cineasta svedese, cosa resta dell’uomo quando viene spogliato del suo costrutto sociale.
Dopo Forza Maggiore – in cui il regista destruttura il patriarcato e le dinamiche familiari, e The Square in cui smaschera l’ignoranza e l’ipocrisia celata dietro la volontà di apparire colti e impegnati, con Triangle of Sandess Ostlung
In Triangle of Sadness Ostlung raggiunge vette nettamente esilaranti: potenzia il suo stile irriverente, creando un’ironia tridimensionale, che esplora i vari livelli della narrazione cinematografica in una serie di scene che divertono proprio per la loro natura pratica, grottesca, pungente e talvolta così dilatata da risultare splendidamente naturali ma allo stesso tempo inverosimile e per questo tremendamente divertenti e apprezzabilissimi sul grande schermo.
Il maschile, oggi.
Prosegue felicemente anche la pungente indagine del regista Ruben Ostlung sulla mascolinità all’interno della società contemporanea.
Triangle of Sadness è il punto di arrivo di una trilogia partita nel 2014 con Forza Maggiore, dove il protagonista affrontava le conseguenze del disgregamento della sua figura patriarcale, proseguita poi con The Square nel 2017 dove ancora una volta l’uomo vede venir minacciata la sua posizione di potere – in questo caso partendo dagli espedienti più semplici e banali, come il furto di un oggetto personale ad esempio. A tal proposito Ostlung aggiunge:
Insieme a Forza maggiore e The Square, Triangle of Sadness compone una trilogia sull’essere maschi nella nostra epoca. I protagonisti dei tre film provano a fare i conti con quello che la società si aspetta da loro, poi li vediamo finire in una trappola e possiamo studiare come reagiscono. Questi film hanno rappresentato un dilemma anche per me, sono stati un modo per mettere me stesso all’angolo: che avrei fatto al posto loro? Più le risposte sono difficili e più la questione diventa interessante.
Lo stesso Chris, la cui carriera sembra iniziare a volgere al termine al contrario di quella della fidanzata ora sulla cresta dell’onda, sentirà il suo dovere intrinseco di “fare l’uomo” venire meno all’inizio della pellicola, fino a completare il suo cerchio nel finale – del quale non lasciamo troppi dettagli in questo momento – dove cerca di sfruttare ancora una volta la sua fisicità (l’ultima vera arma a lui rimasta) per riconquistare la sua posizione di potere.
In generale quel che emerge rispetto ai due titoli precedenti è che – nonostante la parabola ironica sia super efficace e vada dal grottesco delle azioni alla pungente e sottile unicità dei dialoghi – l’indagine del regista in questa pellicola si fermi ad uno strato più sottile dello svelamento dei meccanismi fallaci e ipocriti dietro i quali la contemporaneità ci costringe a rifugiarci. La tesi del primo atto “ricchezza e bellezza irrefrenabili sono la chiave che apre ogni porta” crolla nella sintesi del terzo: spogliato del suo titolo e dei suoi averi, in natura, l’uomo deve mettersi a confronto con ciò che è, e non ciò che ha.
Per quanto efficace la costruzione della narrazione, la sintesi finale non genera particolari sorprese nello spettatore, favorendo la visione per “compartimenti”, che diverte, intrattiene, ma che di certo non spicca per originalità dello svelamento.