1986, la spiaggia californiana di Santa Cruz è bagnata dalla laguna di Venezia e dall’isola di Delo.
Us (Noi), secondo lungometraggio del regista statunitense Jordan Peele, presenta enormi problematiche causate da una sceneggiatura estremamente labile e cedevole: J. Peele ha curato in prima persona la scrittura della propria opera utilizzando – come il medesimo regista ha affermato – la biografica paura di incontrare casualmente un proprio doppelgänger; un topos narrativo profondamente radicato nell’ancestrale convinzione di perdere la propria identità o di non raggiungerne mai una piena maturazione e formazione.
Il tema del doppio è stato affrontato in chiave cinematografica attraverso differenti visioni interpretative, dalla fantascienza di inquietudine in Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultracorpi) di Don Siegel alla commedia di delirio in The World’s End (La fine del mondo) di Edgar Wright. La pellicola di J. Peele si inserisce in una negativa mediocritas tra le due opere precedentemente citate perché affronta un soggetto orrorifico attraverso la suggestione distopica di D. Siegel e l’ossimorico umorismo di E. Wright: satira e comicità trovano rispettivamente nel primo e nel secondo regista una perfetta coerenza narrativa dal momento che rispondono perfettamente ai generi cinematografici di riferimento; questa crasi narratologica rende la sceneggiatura di J. Peele estremamente discontinua – alcune scene risultano eccessivamente prive di un autonomo contesto registico: in un ambiente domestico carico della suspense da home invasion è possibile ironizzare attraverso lo schema del dialogo metacinematografico presente in Scream di Wes Craven e in una successiva abitazione circondata dal pathos dell’omicidio per necessità di sopravvivenza è possibile scherzare tramite gag a incastro basate sulle citazioni ai modellini delle Micro Machines e a Home Alone (Mamma, ho perso l’aereo) di Chris Columbus.
La sceneggiatura è satura di un citazionismo dalla funzione puramente estetica e dall’interesse di sterile intellettualismo che pone il regista in una dimensione di guida cinefila di cui lo spettatore non nutre bisogno data la semplicità dell’intreccio narrativo: Noi si apre con una diapositiva di brevi scritte su informazioni riguardanti i chilometrici tunnel abbandonati presenti nel sottosuolo statunitense; chiusa in dissolvenza la diapositiva e presentati i titoli di testa J. Peele inquadra una parete domestica restringendo lentamente l’angolo di visuale fino al dettaglio di un televisore del 1986. Durante il lento restringimento dell’ampiezza del campo visivo lo spettatore può comodamente prendere nota per una lista di acquisti da videoteca perché le mensole adiacenti al tubo catodico ospitano alcuni VHS: le costole rivestite in plastica delle confezioni delle videocassette sono rivolte a favore di inquadratura e mostrano titoli di film cult degli anni ’80.
Due VHS emergono tra le altre perché avvantaggiate dalla composizione cromatica della fotografia (rispettivamente, nero su giallo e bianco su nero) e dalla facile leggibilità del font editoriale, The Goonies del 1985 di Richard Donner e C.H.U.D. del 1984 di Douglas Cheek: entrambe le pellicole presentano forti legami con Noi sia per l’ambientazione letteralmente underground delle vicende narrate sia per la positiva attenzione etico-politica rivolta alla deformità estetica dei personaggi; una deformità che causa emarginazione sociale (il personaggi di Sloth incatenato nei sotterranei di un ristorante e pronto a sacrificare se stesso in The Goonies) e che nasce come conseguenza dell’emarginazione sociale (i Rossi di Noi e i senzatetto tramutati in orribili creature in C.H.U.D., personaggi narrativi ripresi anche da Matt Groening in Futurama nella creazione di una società dei mutanti che vivono nei sotterranei di New New York nonostante abbiano qualità morali migliori degli abitanti americani “in superficie”).
Dopo la spiegazione offerta dalla didascalia in apertura di opera risulta tautologico e pleonastico offrire allo spettatore continue chiavi di lettura per una sceneggiatura che consegna la propria conclusione narrativa tramite una semplice spiegazione verbale che uccide il potenziale immaginario visivo del cinema e lascia la trama in incongruenze logiche.
La pellicola di J. Peele è soffocata – in aggiunta – da un citazionismo “sartoriale” che non offre nessuna aggiunta interpretativa all’opera cinematografica – dalla maglietta del piccolo Josh in omaggio a Jaws (Lo squalo) di Steven Spielberg alle magliette in negativo come tributo al gruppo musicale Black Flag, alle due magliette di Zora con riferimenti tribali ai conigli. Se i riferimenti culturali appena esposti offrono una sterile aggiunta visiva la citazione al videoclip Thriller di Michael Jackson, diretto da John Landis, presente sulla larga maglietta della piccola Adelaide ha creato – nella mia umile visione della pellicola – una forte incomprensione collegata all’utilizzo narrativo, iconico e tematico che J. Peele effettua sulla manifestazione storica di Hands Across America.
La manifestazione benefica inaugurata per raccogliere finanziamenti economici per combattere la fame e la povertà prese vita il 25 maggio 1986. M. Jackson partecipò alla promozione pubblicitaria dell’evento finché nel cantante non prevalse una logica puramente artistica e commerciale che relegò in secondo piano l’importanza umanitaria di Hands Across America: durante l’intervallo del ventesimo Super Bowl del 1986 fu proposto di inserire la canzone omonima Hands Across America creata appositamente per l’evento di beneficenza come jingle atto a sostituire la canzone We Are the World scritta da M. Jackson e Lionel Richie utilizzata fino a quel momento come motore musicale dell’iniziativa. We Are the World era – ed è – considerata un inno umanitario da quando nel 1985 fu registrata da un gruppo di artisti – guidati anche da M. Jackson e L. Richie – denominato USA for Africa per dare sostegno economico al problema della carestia in Etiopia (un’iniziativa analoga accaduta per esempio con la formazione musicale italiana di Artisti Uniti per l’Abruzzo).
L’enorme importanza pubblicitaria – che oggi spinge le grandi aziende cinematografiche a comprare i costosi secondi di spot pubblicitario durante l’intervallo mediatico del Super Bowl – indusse M. Jackson a boicottare la presenza di Hands Across America all’evento sportivo per eccellenza del popolo statunitense perché temeva che la popolarità di We Are the World subisse una ricaduta commerciale; un timore talmente forte da spingere il cantante a dare le dimissioni dal consiglio di amministrazione di USA for l’Africa.
Hands Across America risultò un successo mediatico ma in parte un fallimento benefico perché la vendita delle magliette promozionali dell’evento – la maglietta è presente come feticcio simbolico nel film di J. Peele – fu utilizzata per coprire le spese organizzative della manifestazione; il New York Times rivelò un anno dopo che Hands Across America raccolse quindici milioni di dollari – una cifra inferiore alle aspettative benefiche preventivate.
In un’intervista rilasciata durante la promozione del film J. Peele ha descritto la scelta di inserire la citazione a Thriller di M. Jackson con le parole:
«Michael Jackson is probably the patron saint of duality (Michael Jackson è probabilmente il santo patrono del dualismo)».
Il videoclip della canzone descrive perfettamente le parole del regista perché non offre soltanto una duplice raffigurazione dell’animo umano ma segue una sceneggiatura che presenta una triplice scissione del personaggio di M. Jackson: non uno piuttosto due doppelgänger per un totale di tre personaggi narrativi (il Michael della visione del reale che mangia pop-corn al cinema con la fidanzata, il Michael della finzione cinematografica che impersonifica il lupo mannaro e il Micheal dell’incubo surrealista che conduce lo spettatore nel regno dell’ambiguità).
Appare chiaro l’omaggio dell’iconico costume rosso e il collegamento narrativo tra Noi e Thriller; ma risulta incomprensibile la scelta storiografica di inserire una citazione – narrativamente inutile – riguardante un artista capace di influire negativamente su un evento – Hands Across America, appunto – utilizzato dal regista come apocalittica e simbolica chiusa della propria opera.
In sceneggiatura risulta fastidiosa l’insistenza procedurale della figura del coniglio (non soltanto attraverso le due magliette di Zora ma tramite dialoghi, gabbie, peluche e disegni che denaturalizzano l’ambiguità di Alice nel Paese delle Meraviglie e – in particolare – Alice attraverso lo specchio di Lewis Carroll) e del numero undici (con una distratta ossessione non diversa dal delirio presente nel film The Number 23 di Joel Schumacher; unica gioia visiva è offerta dal reparto del trucco e dei costumi che modella un personaggio atemporale legato alla figura del profeta Geremia basato sulla mitologia del golem: sulla fronte dell’uomo è incisa una coppia del numero 11 con la stessa funzione vitale descritta da Jorge Luis Borges nella poesia Il Golem e da Gustav Meyrink nell’omonimo romanzo).
La costruzione dei personaggi risulta ugualmente debole ma è esaltata dalle ottime interpretazioni attoriali del cast della pellicola; in particolare l’attrice Lupita Nyong’o riesce a rendere poeticamente splendido l’utilizzo delle proprie corde vocali anche in situazioni in cui il pathos non è aiutato dalla scrittura della sceneggiatura – sebbene sia negativamente semplice il monologo finale del personaggio di L. Nyong’o, l’interpretazione dell’attrice risulta profonda e in perfetto contraltare con Al Pacino che interpretò Shylock nella trasposizione cinematografica de Il mercante di Venezia di Michael Radford, tratta dall’omonima opera teatrale di William Shakespeare.
Di contro emerge l’ottimo lavoro di Ruth De Jong come direttore della scenografia perché riesce a rifunzionalizzare per due volte il tema mitologico della ricerca dell’identità tramite l’attenzione rivolta al tema ludico dell’intrattenimento: sull’isola greca di Delo la Pizia invitava alla lettura di un’iscrizione presente nel tempio di Apollo prima di offrire il proprio responso oracolare, γνῶθι σαυτόν (gnothi sautón): «Conosci te stesso». R. De Jong sostituisce il tempio e la Pizia delfica per due volte, adattando la funzione a seconda del contesto storico di riferimento: nel 1986 la scritta «Find Your Self (Trova te stesso)» è presente all’ingresso di una sala degli specchi in cui la Pizia è stata sostituita da uno sciamano; e nel 2019 la medesima scritta persiste ma lo sciamano – una scelta definibile come razzista nei confronti della cultura dei nativi americani – è stato sostituito dal fantasy di Merlino.
Non ugualmente splendida è la scelta ludica di soffermarsi su giochi che per allegoria descrivono la struttura narrativa di Noi: durante il film sono presenti vari giochi tra cui Acchiappa la talpa e Indovina Chi? che descrivono rispettivamente l’ambientazione sotterranea e il tema della ricerca dell’identità; un’intuizione scenografica che sarebbe risultata inquietantemente splendida se non fosse stata già magistralmente utilizzata nel primo episodio della prima stagione di Stranger Things di Matt e Ross Duffer in cui la figura del Demogorgone è introdotta tramite il gioco Dungeons & Dragons.
Terza e ultima nota positiva nasce dallo splendido montaggio di Nicholas Monsour che aiutato dal reparto sonoro trova il culmine della sua bellezza tecnica in una scena basata su stacchi di inquadratura che seguono gli eleganti e potenti movimenti di un balletto da teatro; pregevole è anche il montaggio che sfrutta i riflessi di finestre e tavoli in vetro che donano allegorica duplicità alla scena.
L’inquietudine nel film di J. Peele non offre nessuna nuova chiave di lettura al tema orrorifico del doppio e non raggiunge lontanamente l’inquietudine della creatura del doppelgänger presente in Mirror Image (Immagine allo specchio), il ventunesimo episodio della prima stagione di The Twilight Zone (Ai confini della realtà), e in due pellicole distribuite per coincidenza cinematografica entrambe nel 2013, The Double (Il sosia) di Richard Ayoade – ispirato all’omonimo romanzo di Fëdor Dostoevskij – e Enemy di Denis Villeneuve – basato sul romanzo L’uomo duplicato di José Saramago. R. Ayoade, come J. Peele, proviene dalla commedia ma diversamente dal regista di Noi sfrutta l’elemento ironico per creare maggiore terrore nello spettatore: in The Double il regista porta all’estremo il contesto di Brazil di Terry Gilliam creando ansia e soffocamento paragonabili a un’asfissia mortale. D. Villeneuve, dall’altro canto, utilizza l’elemento animalesco del ragno – presente soltanto a livello figurativo e attoriale in Noi – e lo trascende tramite una meravigliosa fotografia ocra e surreale.