Il 9 maggio del 2020 Venerdì 13 (titolo originale Friday the 13th) compirà 40 anni.
Il capostipite di una delle saghe slasher più longeve (tra seguiti, crossover e remake si contano ben 12 pellicole, a cui va aggiunta una serie tv, video giochi e fumetti vari) vanta una schiera infinita di fan che, ancora oggi, mantengono in vita il mito di Jason e della sua maschera da hockey.
“Nessuno torna indietro, nessuno!”
La (non) trama, per i pochi che ancora non la conoscessero, narra le gesta di un gruppo di teenagers dai capelli fonati e dagli ormoni ballerini che, il venerdì 13 del 1979, giungono al campeggio di Camp Crystal Lake, in procinto di riaprire 23 anni dopo una tragedia che aveva sconvolto la sonnacchiosa esistenza cittadina; il figlio dell’allora proprietaria Pamela Voorhees, di nome Jason, era annegato al centro del lago per la probabile negligenza degli animatori, il cui assassinio successivo ne aveva decretato la chiusura da parte delle autorità.
“Kill her, mommy!”
Seppur accolti da un luogo che appare (solo di giorno!) un paradiso per turisti, ben presto i protagonisti si ritroveranno faccia a faccia con un pericolo latente che sembra pervadere la zona, fin quando una violenza folle, e all’apparenza irrazionale, si scatenerà senza sosta, tramutando il soggiorno in una mattanza che vedrà fine solo al culmine dello scontro finale. L’ultima scena, girata con un taglio onirico, anticiperà la nascita del vero protagonista del film, che apparirà in questo esordio solo per brevi fotogrammi.
Agli occhi disillusi di uno spettatore medio contemporaneo, Venerdì 13 appare un film invecchiato male, con una regia scolastica dell’onesto artigiano del cinema, Sean S. Cunningham, una sceneggiatura minimale di Victor Miller e una totale assenza di spunti per analisi di natura sociale o politica.
La sceneggiatura traballante, impoverita da dialoghi piatti, spesso senza senso, e da attori mono espressivi che sembrano muoversi sul set come avatar di un gioco pieno di bug, fa un uso sistematico dell’intera gamma di cliché horror esistenti. I vari personaggi si troveranno, loro malgrado, a fare i conti con temporali improvvisi, luci che saltano, auto che non partono, telefoni muti e assenza totale di forze dell’ordine. Gli omicidi, seppur firmati dal mago del make up Tom Savini e preannunciati dal sapiente utilizzo della colonna sonora composta da Harry Manfredini, soffrono di un’inspiegabile brevità d’azione, che abbassa notevolmente il grado di suspense nelle pur interessanti trovate registiche.
Lo scontro tra il killer e l’unica sopravvissuta, che avremmo potuto considerare un’interessante metafora sullo scontro intergenerazionale tra valori morali di una società che viveva un profondo cambiamento, se lo stesso regista non si fosse affrettato a smentire ogni volontà di donare ai temi trattati significati più profondi, anticipa un finale a sorpresa, dal grande impatto visivo, che rappresenta il punto qualitativo più alto del film. Fu proprio Tom Savini a suggerire la scena in cui Alice viene afferrata d’improvviso da un essere sfigurato che appare dal nulla, per riprodurre, nelle sue intenzioni, la forte carica emotiva che Brian De Palma aveva provocato nel pubblico con il finale di Carrie – Lo Sguardo di Satana.
Se alla luce di questi elementi il film è classificabile come un prodotto confezionato a uso e consumo dei drive in americani (alla fine degli anni ’70, periodo d’oro degli slasher, alcuni venivano girati solo per questo circuito), per quale motivo Venerdì 13 è entrato a far parte della schiera dei cult di genere ancora oggi venerati?
Per rispondere è necessaria un’opera di contestualizzazione storica. Quando si parla di uso continuo di cliché, infatti, lo si può fare solo grazie a un’analisi a posteriori, pensando alle decine e decine di film usciti nel periodo immediatamente successivo. Seppur privo di approfondimento psicologico e maestria registica con cui John Carpenter, due anni prima, aveva scioccato gli States con Halloween – La Notte delle Streghe, Venerdì 13 ha avuto l’enorme merito di dare forma concreta a un genere che si stava affermando rapidamente, ma che necessitava di un sub strato metodico ancora da perfezionare.
La caratterizzazione degli elementi e degli schemi interpretativi trova in Venerdì 13 una delle massime espressioni visionarie del momento, in grado di fissare gli ingredienti indispensabili a trasformare lo slasher da sottogenere horror a categoria a sé stante.